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Editoriale

IL FUTURO È NELL’EUROPA

CAMILLO MASSIMO FIORI - 10/12/2011

 

Poteva essere meno amara la medicina che il “governo tecnico” ha prescritto agli italiani? Chi lo afferma continua a sottovalutare le conseguenze di una crisi devastante che iniziata nel 2008 negli Stati Uniti sta coinvolgendo pesantemente l’eurozona, a cominciare dai Paesi più deboli. L’Italia si è trovata nell’occhio del ciclone della speculazione internazionale perché, pur essendo la terza economia europea e l’ottava su scala mondiale, è da sempre appesantita da fragilità strutturali e da squilibri settoriali e territoriali connessi con la nostra complessa storia.

L’Italia unita è stata costruita sui debiti degli stati preesistenti,via via aggravati dalle continue guerre, è stata mal governata da classi politiche generalmente mediocri e da una burocrazia pletorica e scarsamente efficiente.

Il “boom” economico del secondo dopoguerra è il risultato dell’aiuto americano e dell’apertura della nostra economia ai mercati mondiali ed è stato accompagnato dalla realizzazione ritardata di un sistema di assistenza sociale costituito sul debito: gli italiani hanno potuto fruire di pensioni e di servizi sanitari senza aver versato contributi adeguati e addebitandone il costo alle future generazioni. Le spesa pubblica non è mai stata correlata all’entrata: nessuna famiglia può vivere a lungo al di sopra delle sue possibilità, per di più con una distribuzione della ricchezza sempre più ineguale.

La speculazione ha individuato nei nostri “bond”, i prestiti con cui fronteggiamo l’enorme debito pari a 1,9 trilioni di euro, il punto di vulnerabilità, facendo aumentare l’onere gravosissimo degli interessi pagati e mettendo in crisi di liquidità le banche che ne posseggono in abbondanza ma non sono più graditi dai mercati. Sopravviviamo grazie all’aiuto della Banca Comune Europea ma l’Italia è troppo importante sia per poter essere abbandonata a sé stessa che per essere salvata dagli altri Paesi: dobbiamo farcela da soli.

Se non riusciamo a fronteggiare la crisi anche il sistema europeo salta e il ritorno al passato avrebbe un effetto devastante; ci troveremmo con una lira svalutata e con un debito più che doppio.

L’alternativa della “secessione” sarebbe un ritorno, peraltro impossibile, ad un passato di “piccole patrie” incapaci di affrontare le sfide della globalizzazione e caratterizzato da una situazione di miseria generalizzata e di autoritarismo (a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento più di venti milioni di italiani hanno dovuto emigrare in tutto il mondo per trovare pane e lavoro).

I provvedimenti disposti dal varesino Mario Monti sono indubbiamente pesanti gravando con nuove tasse sui cittadini e riducendo alcuni essenziali servizi pubblici; presentano però due importanti novità: sono strutturali, cioè servono per rimettere in carreggiata i bilanci pubblici anche per l’avvenire e spostano l’imposizione fiscale dalle persone alle proprietà.

Si poteva fare di più e di meglio? Certamente sì, ma il governo era sotto ricatto di una catastrofe e aveva la disponibilità di una manciata di giorni. L’impegno però non finisce qui anche se trova un limite obiettivo nello scarso orizzonte temporale che i partiti lasceranno a Monti. Che ha provveduto a significativi provvedimenti per ridurre i costi della politica, per snellire la burocrazia, per sostenere le dimensioni delle nostre (piccole) imprese, per ridefinire le competenze e le attribuzioni di organi statali e locali (come le Provincie) impegnandosi inoltre ad ampliare il “welfare” per poter dare un contributo base ai giovani che non trovano lavoro e agli anziani che l’hanno perso.

Non piace a nessun pagare le tasse, le proteste si possono comprendere ma non da parte di quelle forze politiche che sin qui hanno mistificato la realtà per venderci dei sogni irrealizzabili e neppure dalle non poche associazioni sindacali e professionali che si sono preoccupate di difendere i già protetti, disinteressandosi di chi era fuori dal sistema.

Si chiude una fase della nostra storia, dovremo abituarci ad uno stile di vita più sobrio, ma salvaguardiamo quanto hanno costruito, in termini di progresso economico e democratico, quattro generazioni di italiani, per salvare il futuro del nostro Paese, dell’Europa non più divisa da rivalità nazionalistiche e delle future generazioni.

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