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Economia

WHIRLPOOL ED ELECTROLUX, L’ECCEZIONE È VARESINA

GIANFRANCO FABI - 06/02/2014

Le cronache del mondo del lavoro hanno toccato nei giorni scorsi due grandi colossi nel settore degli elettrodomestici. L’americana Whirpool, che ha la sua sede europea a Comerio, ha deciso di potenziare lo stabilimento di Cassinetta di Biandronno spostandovi delle produzioni ora dislocate parte in Svezia e parte a Trento. La svedese Electrolux ha proposto un piano “lacrime e sangue” per recuperare competitività negli stabilimenti italiani: tagli agli stipendi, maggiore flessibilità, chiusura dell’impianto “storico” di Porcia in Friuli.

Negli stessi giorni la Fiat annunciava la costituzione di una nuova società nata dalla fusione con l’americana Chrysler ponendo la sede legale in Olanda e la sede operativa, dove pagherà anche le tasse, in Gran Bretagna.

Da una parte quindi abbiamo una multinazionale americana che punta sull’Italia, e particolarmente su Varese, non solo come centro operativo o strategico, ma anche come polo produttivo. Dall’altra abbiamo altre due multinazionali, una svedese e una italo-americana, che decidono di ridurre notevolmente la loro presenza in Italia e, nel caso della Fiat, spostando addirittura all’estero la sede legale e finanziaria.

Se guardiamo alla realtà locale non possiamo non ricordare anche il caso dell’Husqvarna, azienda leader nella produzione delle moto da cross, con la produzione trasferita da un giorno all’altro dall’Italia all’Austria dopo l’acquisizione da parte della Ktm.

Che cosa indicano queste scelte che, almeno in parte, sembrano contraddittorie? Se si guarda alla realtà industriale italiana il giudizio non può che essere disarmante: quella della Whirpool è un’eccezione positiva, la regola purtroppo è fatta in gran parte di aziende che riducono produzione e occupazione o che spostano all’estero le loro attività.

E non è solo un problema, che pur esiste, di costo del lavoro che peraltro è ancora inferiore a quello francese e tedesco. L’autorevole Centro studi degli artigiani di Mestre ha messo in fila le ragioni del declino industriale italiano, ragioni che stanno nel peso delle imposte (più del doppio della media europea), nel costo dell’energia (il doppio rispetto alla Francia), nella tassazione (4 punti in più della media europea), nei costi logistici (esportare un container costa il 14% in più che nel resto d’Europa), nei ritardi della giustizia (per risolvere una causa commerciale ci vogliono in media più di mille giorni, il doppio che nel resto d’Europa), nell’inefficienza della pubblica amministrazione (un permesso di costruzione richiede 234 giorni, un allacciamento alla rete elettrica 124 giorni). L’Italia paga almeno vent’anni di politica inconcludente e inefficace.

Siamo di fronte ad una realtà la cui tendenza di fondo è purtroppo chiara: e questo vuol dire che in Italia vi saranno meno posti di lavoro, meno occasioni di allargare gli affari, meno gettito fiscale per lo Stato. Il quale Stato tuttavia per ora non si è mosso per affrontare questi temi, anzi, ha negli ultimi mesi ancora più aggravato le condizioni operative delle imprese con l’imposizione dell’IMU sui capannoni industriali, una tassa irrazionale perché prescinde dall’operatività e soprattutto dalla redditività del bene su cui grava l’imposta.

Eppure l’Italia meriterebbe una vera politica industriale, meriterebbe uno scenario favorevole per i settori industriali che sono gli unici in grado di produrre ricchezza e posti di lavoro. Ma la politica, come è ormai consuetudine, parla d’altro.

 

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