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Società

NOI E I FRANCESI

MANIGLIO BOTTI - 28/03/2014

Luglio 1948. Gino Bartali al Tour de France

“Za za za za! / Za za za zazza! Za za za za!… Oh quanta strada nei miei sandali! / quanta ne avrà fatta Bartali / quel naso triste come una salita / quegli occhi allegri da italiano in gita / e i francesi ci rispettano / che le balle ancor gli girano…”. E più avanti, ancora: “E vai che io sto qui che aspetto Bartali / scalpitando sui miei sandali / da quella curva spunterà / quel naso triste da italiano allegro / tra i francesi che si incazzano / e i giornali che svolazzano…”.

Insomma, Paolo Conte, uno chansonnier più che un cantautore, dunque uno che se ne intende, nella sua vecchia canzone “Bartali” ci aveva già detto tutto o molto dei francesi, che magari fanno buon viso a cattivo gioco ma che in realtà non sanno perdere e dentro gli rode, sempre.

Tanto per non andare troppo lontani, molti anni dopo le epiche imprese al Tour di Ginone nostro, ci ritroviamo con la memoria alla gloriosa notte di Berlino – 9 luglio del 2006 –, finale del mondiale di calcio, e ai sorrisetti e agli applausi ironici dell’allenatore dei Galletti Raymond Domenech, il quale non affidava la tragedia della sconfitta all’errore di Trezeguet nel calciare il suo rigore o ai nervi di Zinedine Zidane sconvolti dalla malevola perfidia di Materazzi, ma all’italico sederone – qualcuno dice lo stellone –, cioè alla nostra innata capacità di sfruttare lo sfruttabile, nel gioco e nella vita. Già si preparavano, quella notte, sfilate di giubilo sui Champs-Élysées, invece…

Non è il caso di andare a sfruculiare nella storia – per esempio alla famosa (per noi) “Disfida di Barletta” e a Ettore Fieramosca – né di rimestare nei soliti luoghi comuni, però è un fatto che i francesi si considerano sempre grandi, comunque vadano le cose, e che giudicano con sospetto e con sufficienza i successi degli altri, specialmente i nostri. Ne abbiamo avuto una riprova una settimana fa, quando a Los Angeles è stata annunciata la conquista dell’Oscar per il miglior film straniero – “La grande bellezza” – da parte dell’italiano Paolo Sorrentino. Alcuni giornali francesi con autorevole compatimento hanno sottolineato l’aspetto del premio dato a chi sa piangersi addosso. Cosa magari un po’ vera, ma intanto a casa con l’Oscar ci siamo tornati noi.

Di rivalità anche nel cinema (e poi pensiamo alla moda, alla gastronomia, all’enologia…), tra italiani e francesi, s’è sempre parlato. In realtà, non possiamo negarlo, i nostri cugini d’Oltralpe in questo campo sono dei maestri. Intanto, tuttavia, l’Oscar, che è pur sempre un bel riconoscimento internazionale, è venuto di qua dalle parti di Milano, di Roma, di Napoli. Non solo: negli ultimi trentacinque anni, se si va a spulciare nei tabellini degli Oscar, risulta che i francesi ne hanno conquistato soltanto uno – nel 1993 con il film “Indocina” di Régis Wargnier – e noi quattro: nel 1990 con “Nuovo cinema Paradiso” di Tornatore, nel 1992 con “Mediterraneo” di Gabriele Salvatores, nel 1999 con “La vita è bella” di Roberto Benigni” e infine adesso con “La grande bellezza” di Sorrentino. E non è casuale perché gli Oscar piovuti in Europa dal 1980 a oggi sono quasi una trentina. Tutti meritati i nostri? Forse sì forse no. Così vanno le cose del mondo e del cinema. Ad maiora…

C’è perciò del rodimento a Parigi e zona. Lo comprendiamo e lo giustifichiamo, perché fa parte della vita. In fondo i francesi – e magari anche noi chi lo sa – sono un po’ come quel personaggio del romanzo di Piero Chiara “Il piatto piange”, il Queroni ricordiamo, il quale non sempre si alzava soddisfatto dal tavolo dello Chemin. Quello del perdere – scriveva Chiara – in verità non è un piacere, ma serve come preparazione, per quanto dolorosa, alla gioia del vincere. E faceva dire lo scrittore al Queroni: “Io non gioco per guadagnare, gioco per divertirmi. Però quand perdi me diverti un Cristo!”.

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