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Attualità

GESÙ, RILETTURA DEL PASSATO

MANIGLIO BOTTI - 18/04/2014

Antonio Ciseri, Ecce homo!, 1871

Non sono pochi i legami della più importante festa cristiana, la Pasqua, con l’ebraismo e con la tradizione. A cominciare dal nome preso dalla parola Pesah – lo ricordiamo soprattutto a noi stessi a mo’ di riassuntino alla Bignami – che in ebraico significa “passaggio”, “andare oltre”. E che, in particolare, si richiama alla liberazione degli ebrei dalla schiavitù in Egitto, al passaggio del Mar Rosso, all’Angelo di Dio che – com’è scritto nel libro dell’Esodo per la decima piaga – non varcò le soglie delle case di Israele perché segnate con il sangue dell’agnello, e passò avanti, andando a colpire soltanto in quelle in cui abitavano i primogeniti degli egiziani.

La condizione di “passaggio” è vera anche per i cristiani, in quanto Gesù, che resuscitò il terzo giorno dopo la morte, ha rappresentato l’unico attraversamento, dalla vita e oltre la fine di essa, annunciando quella speranza di rinascita che, in definitiva, sta alla base della nostra fede e della nostra religione.

Gli agganci con la tradizione si intessono invece con il ciclo lunare e nel fatto che la Pasqua è considerata una “festa mobile”, che condiziona ovviamente anche l’inizio del periodo di Quaresima, l’Ascensione, la Pentecoste. Si celebra ogni anno nella prima domenica successiva al primo plenilunio dopo l’equinozio di primavera, sicché – considerando l’aggio di sei giorni da aggiungere al compimento del ciclo lunare – la Pasqua non può che cadere tra il 22 marzo e il 25 aprile. In Umbria, stando a un antico proverbio, per dire che una cosa non sarà mai realizzata si cita spesso la frase: “Quando Pasqua vien di maggio…”. La festa della Pasqua e della resurrezione di nostro Signore viene ufficialmente annunciata ogni anno durante la Messa del giorno dell’Epifania, subito dopo la lettura del Vangelo. Quella di quest’anno – il 20 di aprile – è detta “Pasqua alta”; quando la festa cade in marzo o ai primi di aprile, bassa o media.

I contenuti della nostra fede sono descritti alla perfezione in una “preghiera centrale”, insieme con il Padrenostro, che è il Credo, così come lo recitiamo oggi, e che riportiamo, in parte, nella sua stesura latina non già per particolari simpatie lefevriane ma in omaggio ai catechisti della fanciullezza: “Credo in Deum Patrem onnipotentem, Creatorem caeli et terrae; et in Jesus Christum, Filium eius unicum, Dominum nostrum, qui conceptus est de Spiritu Sancto, natus ex Maria Virgine, passus sub Pontio Pilato, crucifixus, mortuus et sepultus; descendit ad inferos: tertia die resurrexit a mortuis: ascendit ad caelos, sedet ad dexteram Dei Patri onnipotentis: inde venturus est iudicare vivos et mortuos…”. Ciò che si rileva subito, recitando questa preghiera, è che le “persone” in essa nominate sono cinque: le tre figure della Trinità: il Padre, il Figlio Gesù e lo Spirito santo, Maria Vergine e Ponzio Pilato; quest’ultimo – procuratore romano in Giudea tra il 26 e il 33 d.C. – è il legame della fede con la storia. Il suo nome non è messo lì per caso.

La libertà lasciata all’uomo dal Padreterno di credere o no, ma anche a ben vedere dalla fede cristiana che non è un obbligo ma soltanto un annuncio, un pronunciamento, una testimonianza ha proprio qui – nella citazione di Ponzio Pilato – il suo nervo scoperto. Risulta impegnativo, certo, credere alla resurrezione di Gesù e che Egli verrà a giudicare i vivi e i morti, al fatto che sia nato da una donna vergine, ma non si dovrebbero avere dubbi sulla figura di Ponzio Pilato, anche se controversa, magari un po’ fumosa anche nella storia, ma che però – proprio per alcuni particolari della narrazione evangelica – lascia aperti pochi spazi allo scetticismo.

Non essendo teologi, né avendo mire sulla conversione di coloro che non credono, perché il fatto religioso non è questione di gossip, ma intima e riservata, diamo soltanto degli spunti di riflessione che, come detto, forse sono più di aiuto a noi stessi che agli altri.

Se si crede a Ponzio Pilato – così come si crede a Giulio Cesare e a Napoleone – non si dovrebbe fare fatica a pensare che, essendo lui prefetto di Roma, ovvero alla sua epoca, si celebrò un processo contro un uomo che aveva predicato in nome del Padre, e che infine – per questa ragione – fu condannato alla crocifissione. La cronaca e la dinamica del processo a Gesù, le sue risposte al sommo sacerdote non sono frasi banali, riferite genericamente dagli evangelisti, ma rappresentano il significato di un processo “vero”, avvincente, che dovrebbero convincere (o almeno sorprendere) anche quelli che negano: “Ti scongiuro per il Dio vivente affinché ci dica se tu sei il Cristo, il figlio di Dio”, chiese solennemente il sommo sacerdote. “Se io ve lo dico non mi crederete; se poi vi interrogherò, non mi risponderete…”. E, infine, alla domanda che veniva ripetuta insistentemente e confusamente: “Voi dite che io sono”. Cioè il figlio di Dio.

Le conclusioni di questo vibrante scambio di battute sono note, anche ai “non credenti”. Per quanto ci riguarda di quel processo “sub Pontio Pilato”, di quella storia che rileggendo ci lascia sempre più sconvolti, amiamo riflettere su altre piccole vicende che ci appaiono ancora più sorprendenti, magari più letterarie, ma non perciò lontane dalla verità e dalla natura umana, e dunque non meno credibili. Su tutte il tradimento disperato di Giuda, per denaro, i rinnegamenti di Pietro, l’uomo più forte – colui sul quale il Messia avrebbe fondato la propria chiesa – e anche l’uomo più fragile, che tradì e poi “pianse amaramente”, pentendosene. Anche questi particolari, questi rimescolamenti nell’animo umano, così veri e universali, non sono stati detti e ricordati per caso.

Se poi infine, se duemila anni dopo Ponzio Pilato e quel processo e quella morte e… quella resurrezione, il seme è rigogliosamente cresciuto, al punto da farcene parlare ancora, da tormentarci anche – e non siamo i soli –, ebbene qualche ragione ci dovrà pur essere.

 

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