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Apologie Paradossali

COME QUEL VILLAGGIO

COSTANTE PORTATADINO - 16/05/2014

Sebastiano è immusonito. È tornato da Roma alle sette di mattina, dopo una notte in pullman. Ha dormito cinque ore, appena sveglio ha visto che la sua squadra ha perso, così pure la Ferrari. Non ha voglia di raccontare della Festa della scuola col Papa. Lo stuzzico dicendo che ho sentito il discorso del Papa, che è molto bello, mi è piaciuto ascoltandolo in tv e ancora di più rileggendolo su Avvenire; faccio finta di non aver potuto seguire tutta la manifestazione e cerco di farlo parlare di tutto il resto.

Per un po’ non si sbottona; racconta della fatica del viaggio, del lungo tratto a piedi per scoprire che la vigilanza non ha fatto entrare il suo gruppo nei posti a sedere del primo settore, nonostante i biglietti d’invito, del ritorno sui propri passi fino all’inizio di via della Conciliazione, lontanissimo persino da un maxischermo, della calca e dell’ora di attesa in coda alla stazione della metropolitana al momento del ritorno, finisce con i disagi del sonno perso nella notte in pullman e persino col qualificare di brutta e grigia l’alba della domenica, a confronto con quella del giorno precedente, del viaggio di andata, rallegrata dallo splendore della stella mattutina nel cielo d’oriente e poi dal sorgere imperioso di un sole sfolgorante “che – dice – mi aveva fatto pensare al Benedictus che leggiamo alle Lodi mattutine: Grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio, per cui verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge, per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte e dirigere i nostri passi sulla via della pace”.

 “Dunque – gli dico – l’attesa di una cosa bella ti aveva caricato di illusioni, poi la fatica di vivere la realtà ti ha disilluso”.

Non è così banale. Ti spiego. La gioia e la fatica si sono mescolate continuamente, come pure la distrazione, la noia e la bellezza. Il fatto di essere tantissimi è stato proprio bello, ma non è il numero che conta, non era mica una manifestazione sindacale, e ha reso difficile l’attenzione, almeno per noi che eravamo lontani dal palco. Durante le testimonianze, che pure hanno avuto spunti interessanti, prima dell’arrivo del Papa, il chiacchiericcio sovrastava spesso il messaggio degli altoparlanti, sembrava di essere allo stadio prima della partita…”.

“Ma poi è arrivato Papa Francesco e…”.

“E la preoccupazione è diventata quella di scattare una foto, ci ho provato anch’io, mica facile, tra le decine di braccia alzate, di videocamere e di telefonini… non mi è venuta bene. E, non ci crederai, dopo il passaggio del Papa, quasi due ore prima del suo discorso, parecchia gente, non solo curiosi, ma gruppi organizzati, scolaresche hanno cominciato a sfollare, se ne sono andati via… A casa, come se tutto fosse finito”.

“Ma poi ci sono stati gli interventi centrali, il discorso del Papa”.

Sì. Ma per arrivare al Papa ci sono state di mezzo ancora due ore di sofferenza. Interventi leggerini, testimonianze occasionali, due letture di don Milani e di monsignor Bello, belle per carità, ma poco connesse con l’argomento e la situazione attuale della scuola… e ogni mezzora il campanone di una chiesa sulla via scampanava per cinque minuti buoni, coprendo le voci degli altoparlanti, che per fortuna non è capitato al Papa… e nel mezzo Fiorella Mannoia e Francesco Renga… ma che c’azzecca con la scuola. Poi, il massimo: per dieci minuti buoni Max Giusti ha cantato “La Balilla” in tutti i dialetti d’Italia… E ancora interventi che testimoniavano, al massimo, disagio e buona volontà, tanto che dopo un minuto i ragazzi si mettevano a gridare Papa Francesco, Papa Francesco per farli smettere”.

“Ma poi il Papa ha detto alcune cose grandi. Lo spunto che mi è piaciuto di più è stato il proverbio africano: “per educare un bambino ci vuole un villaggio”, come dire che la scuola non può pensare di restare da sola, che ci vuole l’alleanza educativa con la famiglia, con il mondo del lavoro, con gli anziani, con tutto ciò che dà senso al vivere quotidiano, nel villaggio c’è di tutto, anche le cose spiacevoli con cui confrontarsi, la vita e la morte. L’educazione non è solo istruzione, non è solo tecnica pedagogica, non è solo aule, non solo precari e concorsi.”

Certo che mi è piaciuto, ma noi invece dipendiamo tutti troppo dallo Stato, dalla burocrazia, dalla pretesa neutralità del sapere. Ricordi che cosa c’è scritto sul palazzone del Ministero? Ministero della Pubblica Istruzione. Ma sotto, dall’imbiancatura mal rifatta, si leggeva ancora Ministero dell’Educazione Nazionale. Capisci? Il fascismo voleva invadere l’area della coscienza individuale, conformandola ad un progetto politico, ma se abbandoni il compito dell’educazione, finisce che lo fanno altri, la comunicazione di massa, la TV, gli spettacoli, oggi internet e tutto il mondo diventa una curva di stadio, nevvero? Se manca la possibilità di una educazione vera, che sia frutto di una esperienza fatta in libertà, finisce tutto con la pretesa di soddisfare l’istinto e di scoprire la via più comoda per farlo. Un ragazzo mi ha detto: che bisogno c’è di studiare, se posso trovare tutto su internet! Questo non è stato affrontato, anzi”.

“Certo che capisco! E nemmeno io sono contento di come sono andate le cose. La forma è importante tanto quanto il contenuto, non si tratta di aspetto esteriore. Penso a come questa unità si è realizzata felicemente, pochi giorni fa in piazza del Duomo, a Milano, con lo spettacolo davanti alla reliquia del Sacro Chiodo, del chiodo della Croce. Niente di stratosferico, ma compostezza e partecipazione del pubblico, qualità artistica, appropriatezza dei contenuti; un messaggio bello e coerente. Capisco anche che la Chiesa deve fare come quel villaggio africano, non può barricarsi nel moralismo dei principi e lasciare il resto del mondo al vento delle mode e delle convenienze. Ma il modo più giusto per cominciare a farlo, caro il mio Conformi, non è lamentarsi, ma offrire con serenità il sacrificio del proprio impegno, come hai fatto andando a Roma, dormendo in pullman, facendo bene l’insegnante, come fai tu.”

No, non basta, non basta ai ragazzi, non basta neanche a me come insegnante: c’è qualcuno che mi dà una mano a fare, anzi a essere qualcosa di più?”.

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