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Politica

GLI STESSI ERRORI DEL 1929

CAMILLO MASSIMO FIORI - 07/01/2012

Giulio Tremonti, ex ministro dell’economia, ha fatto poco tempo fa al Workshop Ambrosetti una dichiarazione sorprendente: “Per il sistema italiano – ha detto – sarebbe meglio avere il grande IRI e la vecchia Mediobanca per sostenere un confronto che non è più fra stati, fra continenti”.

È una sconfessione bella e buona del neo-liberismo basato sulla assoluta autonomia dei soggetti economici, sul ridimensionamento dei poteri dello Stato in tale materia e sulla subordinazione della politica all’economia.

Dopo tre decenni di dominio del nuovo credo “più mercato e meno Stato” si è fatta strada la convinzione che il mercato, senza l’intervento regolatore dei poteri pubblici, non è in grado di evitare le ricorrenti crisi mondiali come quella scoppiata del 2008 e aggravatasi quest’anno, che aveva avuto il noto e ancora più disastroso precedente nel crollo di Wall Street nel 1929.

Ovviamente quello di Tremonti non è l’auspicio di un ritorno ad un passato di statizzazione dell’economia secondo il modello sovietico che è clamorosamente fallito insieme all’estinzione del comunismo e alla disintegrazione dell’Urss.

Nelle sue parole vi è piuttosto la reminiscenza dell’economia sociale di mercato che gli economisti e i politici di ispirazione cristiana impostarono e attuarono dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale. Essi avevano preso l’avvio dalla dottrina sociale della Chiesa ma avevano anche messo a buon frutto la lezione delle dittature che, per ottenere il consenso popolare, erano intervenute in campo economico per superare la fase depressiva degli anni trenta. La loro azione non era però finalizzata, come nelle società totalitarie, ai fini di potenza bensì di sviluppo pacifico, comunque rispettoso delle autonomie dei singoli e delle imprese.

Dopo la crisi del 1929 che aveva coinvolto tutto il mondo, le più importanti industrie italiane, artificiosamente gonfiate in seguito alla produzione di materiale bellico per sostenere la “grande guerra”, entrarono in una fase drammatica per la caduta della domanda, travolgendo anche il sistema bancario che, attraverso i prestiti erogati con garanzia sulle azioni delle società, era a quelle intimamente legato.

Si era verificata la previsione di Raffaele Mattioli, capo della Banca Commerciale Italiana che era allora il nostro più importante istituto di credito e uno dei principali a livello europeo: “Una mostruosa fratellanza siamese in cui le banche erano legate a filo doppio alle sorti delle industrie da loro finanziate”.

Di fatto il sistema capitalistico italiano, formato da banche e imprese, era tecnicamente fallito.

Quando le banche cominciarono ad avere difficoltà nel farsi rimborsare dai grandi debitori – ricorda Domenico Menichella governatore di Bankitalia – si rivolsero all’istituto di emissione che concesse loro imponenti prestiti.

Si calcola che, nel 1933, oltre la metà della circolazione bancaria era costituita da questi finanziamenti e che, di conseguenza, per lo Stato italiano si prospettava la bancarotta. Il governo (fascista) d’allora approvò il piano di salvataggio elaborato dal finanziere Alberto Beneduce che portò alla costituzione dell’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) a cui venne assegnato per vent’anni un contributo annuale e il potere di emettere obbligazioni per raccogliere fondi.

L’IRI, per prima cosa, rilevò da Comit, Credit e Banco di Roma le partecipazioni azionarie in portafoglio riconoscendo loro un credito di dodici miliardi di lire che si impegnò a restituire in un ventennio, remunerandolo con un tasso del quattro per cento, e in contropartita prese a carico il debito delle banche verso l’IRI, pure rimborsato nei vent’anni successivi.

A seguito di questa complessa operazione lo Stato si trovò proprietario dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale che a sua volta possedeva le tre banche di interesse nazionale e molte importanti imprese; con le nuove leggi bancarie del 1936-37 le banche furono costrette ad esercitare il credito a breve termine mentre quello a medio e lungo termine per i finanziamenti fu attribuito a istituti specializzati come l’IMI (Istituto Mobiliare Italiano) e, più tardi, Mediobanca.

Non fu statizzazione formale perché l’IRI e le imprese possedute erano gestite secondo i criteri privatistici del nostro diritto civile, lo Stato non entrò direttamente nella gestione delle imprese ma si limitò a stabilire indirizzi ed obiettivi.

Secondo l’economista Pasquale Saraceno lo Stato italiano fece un affare eccellente: recuperò i soldi prestati con i relativi interessi, risanò le aziende e rimise in moto l’industria e l’economia del Paese.

L’IRI funzionò, almeno per una prima lunga fase, molto bene tant’è che venne preso a modello da molti altri Paesi, come autorevolmente testimoniato dal capo di Mediobanca, Enrico Cuccia, il quale ribadì che l’ente “non subì la mainmise da parte della frazione dominante, almeno per un certo tempo”.

A partire dagli anni settanta la politica partitocratica invece le mani ce le mise e ciò portò al collasso dell’Istituto che fu liquidato negli anni novanta.

Il mito del mercato, la moda delle privatizzazioni, l’abolizione della legislazione “interventista” sono state anche negli Stati Uniti, le premesse dell’esplosione della nuova crisi mondiale.

Il neo-liberismo non è stato un passo in avanti ma un ritorno al capitalismo ottocentesco e Albert Einstein ha opportunamente ricordato che “non possiamo pretendere che le cose cambino se continuiamo a fare le stesse cose”.

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