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Editoriale

L’ISOLA

MASSIMO LODI - 31/07/2015

pallanzaLa chiesa parrocchiale di Pallanza ha di fronte a sé, nel Golfo Borromeo del Lago Maggiore, l’Isolino di San Giovanni, l’Isola Bella, l’Isola Madre, l’Isola dei Pescatori. Forse per ciò – dovendo corrispondere a un’antica e naturale esigenza scenografica – sembra atteggiarsi anch’essa ad isola, sia pure segnata da coste virtuali: un sicuro approdo della fede. Un luogo di ritiro dello spirito. Un ricovero di meditazione del sentimento.

Come tutte le chiese, direte. Eh no, un po’ di più. La marca una distinzione. All’ingresso, al confine della navata centrale con quella di sinistra, tra colonne/fiori/affreschi è deposto su un leggio di legno scuro un grande quaderno: fogli tipo protocollo, a righe ben spaziate, tenuti insieme da tre anelli di metallo. Ogni pochi giorni, vengono rinnovati perché già riempiti di scrittura.

Sono le noterelle dei visitatori. Vedono l’albo, ne sono incuriositi, lasciano un messaggio. Intenso e superfluo. Intenso perché racconta di sofferenze e di speranze, di angosce e di auspici, di cupezze e di serenità: quanto può esprimere e raccontare l’animo umano. Superfluo perché l’interlocutore è il Signore. Basterebbe un colloquio muto, a rappresentare l’intimità che gli si vuole comunicare. Invece no, subentra il desiderio di mettere gli altri a parte di se stessi. Forse inconsapevolmente, forse no.

Dunque: il tacere che diventa scrivere, lo scrivere che vuole diventare parlare, il parlar tacendo che diventa un’aspirazione/necessità/obbligo. Sia pure tramite terzi. Cioè per il mezzo del grande quaderno. La conclusione semplice è un’evidente denunzia di come sia complessa la solitudine. Con molte ramificazioni, con tenaci radici, con l’esigenza di cercarvi riparo. Prendere la biro, metter giù qualche parola, confidare nella sua lettura, sentirsi meno marginali, periferici, abbandonati: che cosa, se non questo, può motivare la pubblicizzazione d’una privatezza? Quale migliore sollievo d’un ideale sostegno al proprio patire? E chi più del qualunque peccatore che capita lì potrebbe capire, comprendere, giustificare i peccati di uno transitatovi prima e come lui?

Il prete che da anni colloca un paio di risme di carta la settimana e poi le ritira da San Leonardo -così si chiama la chiesa, di origini seicentesche e curiosamente addossata a un campanile senz’orologio – ha avuto un’intuizione felice. Si è domandato che gesto di carità dovesse stare in cima alla classifica della misericordia, e gli è venuta l’idea di proporre quest’antologia di testimonianze popolari. Cristiane e non cristiane. Genuine, spontanee, umili. Umane: umanissime. I cuori si sono aperti, e continuano a schiudersi: mostrano, attraverso larghe crepe, ciò che immaginiamo e conosciamo. Ma prenderne visione diretta e contezza reale è la conferma di cui ogni tanto abbiamo bisogno per non scordare l’inconsistenza del filo fragile che cuce il nostro vivere, e tende facilmente a spezzarsi se non trova mani delicate pronte a congiungersi nella pietà.

“Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt” sussurra Enea ad Acate: sono le lacrime delle cose, e le cose mortali toccano la gente. Siamo sempre a Enea, alle cose mortali, alle lacrime. E soprattutto alla gente.

Molti preti, tutti i preti, dovrebbero comportarsi al modo del prete di Pallanza. Favorendo, anche a proposito di comunione / comunicazione / comunitarismo un ormeggio consolatorio nell’isola di preghiera che è la loro chiesa, talvolta resa dalle sue severe sponde d’intimorito sbarco ai naviganti.

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