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Politica

IL CAPITALE SOCIALE

CAMILLO MASSIMO FIORI - 21/01/2012

Per misurare lo stato di sviluppo di un Paese si fa riferimento solitamente ad alcuni elementi, cosiddetti “fondamentali” dell’economia, come il prodotto interno lordo, il deficit dei conti pubblici, il debito nazionale, la produzione di beni e servizi, le importazioni e le esportazioni e così via; ma una nazione è progredita non solo se è ricca ma se la ricchezza viene distribuita secondo giustizia; cioè se fa rifermento ad elementi materiali ma anche alle regole morali, tra cui il rispetto degli altri, la cura dei beni comuni, la coesione sociale. È stato proprio questo risveglio di virtù civiche che ha consentito all’Italia, dopo la tragedia della guerra, di ricostruire le case, le fabbriche, le infrastrutture; di realizzare un sistema politico espresso, per la prima volta nella storia dai cittadini; di trasformare un Paese agricolo in una delle prime otto nazioni industrializzate del mondo.

Questi risultati non hanno però cambiato totalmente il nostro carattere nazionale, siamo rimasti ancora legati a modi di concepire il bene pubblico e di perseguire i legittimi interessi individuali su cui pesa l’eredità storica di un passato che ha visto l’Italia, nei secoli scorsi, governata da regimi autoritari, spesso stranieri, che hanno in parte spento la creatività e il senso di una patria comune a cui è legato il nostro destino.

Aldo Moro fu il primo, e finora unico, statista che ha capito e analizzato non soltanto le peculiarità di un “sistema politico” bloccato dai particolarismi di potere come il nostro, eredità del “familismo morale” che gli italiani maturarono a causa della loro storia, ma anche delle trasformazioni che già si preannunciavano negli anni Settanta, portando in primo piano la necessità di una “terza fase” politica che, in effetti, non c’è stata, sostituita da una lunga e inconcludente transizione.

L’urgenza di acquisire tale consapevolezza è stata sottolineata dal nuovo governo Monti, definito “tecnico” perché composto da professori e specialisti ma in realtà rappresentativo della società civile, per rendere la politica adeguata alla realtà di un nuovo mondo globalizzato e interconnesso dove il primato della politica è insidiato da quello dell’economia.

Moro fu un educatore politico per eccellenza perché, sin dai tempi della Costituente (di cui fu uno dei più importanti estensori) e poi nella ricerca del “centro – sinistra” e successivamente della “solidarietà nazionale” si preoccupò di far seguire alla teoria e all’analisi gli “esempi virtuosi” di scelte difficili e concrete.

Non fu “uomo del fare estemporaneo” ma realizzatore delle “cose” importanti che restano a fondamento della democrazia: una sintesi dei suoi scritti, pubblicata recentemente dal “Corriere delle sera”, ne è una eloquente testimonianza.

La scelta di anteporre il bene comune agli interessi individuali, la necessità di una visione complessiva di lungo periodo al posto delle convenienze elettorali si chiama “cultura critica” ed è un bene comune che, insieme ai principi, ai valori e alle idee condivise, costituisce il “capitale sociale” di un popolo.

Come si fa a riscoprire e a riproporre ai cittadini l’adozione di tale consapevolezza con il conseguente rifiuto dei populismi e dei conformismi?

La “cultura critica”, giova ripeterlo, è la capacità autonoma del cittadino che si sottrae alla influenza di strumenti e tecniche che lo condizionano, è la volontà di non essere soltanto un individuo-consumatore che crede di realizzare i propri fini mentre in realtà contribuisce a perseguire il profitto dei produttori di beni e di servizi; questa forma di condizionamento si chiama “marketing” e non ha nulla a che vedere con la politica anche se da questa è utilizzato.

I luoghi di produzione della “cultura critica” sono le grandi agenzie educative come la scuola, la chiesa, l’associazionismo e i partiti (questo insieme costituisce propriamente la “società civile”, non le masse indifferenti e disinformate), a cui si aggiungono i “media” (giornali, libri, radiotelevisione).

Alcune di queste agenzie educative hanno smarrito il senso della loro missione perché sono state contaminate da una logica manageriale capitalista basata (come nel mondo dello spettacolo) sullo “star system”, cioè sulla personalizzazione: i singoli contano di più dei gruppi e i volti sono più importanti delle idee.

Tale processo è evidente nei partiti che da mezzi di educazione, di partecipazione e di promozione sociale dei cittadini sono diventati strumenti sofisticati di sostegno della classe dirigente (la “casta”) risultante della cooptazione e non da libera scelta degli elettori, dove contano non i militanti e gli iscritti ma i “leader” con il seguito di capetti e fiduciari; cosi i partiti si sono svuotati di contenuti e hanno perso in credibilità agli occhi dei cittadini.

Il “sapere critico”, capace di formare oltre che di informare, prospera in comunità solidali, tendenzialmente egualitarie, piuttosto che in formazioni competitive al loro interno. Ecco perché i partiti con una forte accentuazione di contrasti, di divisioni e di correnti non sono in grado di elaborare una “cultura critica” e producono soltanto faziosità fini a sé stesse.

L’ “inattualità” di Moro è un mito funzionale a una politica senza idee e senza obiettivi che non si propone più di cambiare la società ma soltanto di migliorarne l’efficienza nell’ambito del “pensiero unico universale”, cioè il capitalismo neo-liberista. Ma per uscire dalla crisi ciò non basta.

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