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Apologie Paradossali

IL LINGUAGGIO DELLA FEDE

COSTANTE PORTATADINO - 16/10/2015

Avere fede, non opinioni, facile a dirsi; in realtà un po’ più difficile, se stiamo all’ultima vicenda del Sinodo, non tanto la lettera in sé, quanto la sua pubblicazione. Se anche autorevoli cardinali di Santa Romana Chiesa si scompongono i paludati paramenti in pubblicazioni surrettizie, sotterfugi, smentite, precisazioni, questioni di metodo e di stile (di sostanza chissà?), avere LA fede, piuttosto che UNA opinione, diventa un miraggio per il cristiano comune.

Non sarà il caso che anche la Chiesa sia stata contagiata dal virus dello scoop? Nel senso che non si comunica nulla, non rimane nulla nella memoria collettiva se non attraverso un’esplosione mediatica. Qualcosa di simile al già segnalato fenomeno della pubblicità demenziale, logico sviluppo della comicità demenziale, ma oggi quasi l’unico linguaggio della pubblicità. E se i pubblicitari, che sono pagati per usare il linguaggio per far fare soldi ai loro committenti, usano queste tecniche, vuol dire che funzionano. Già avevo notato quanto il linguaggio della (finta?) demenzialità avesse iniziato a travasarsi nella politica, dapprima come esagerazione retorica, poi come metafora insostenibile, infine come iperbole totalizzante (i milioni di emendamenti di Calderoli) capace di annullare ogni possibilità di comunicazione. Una simile prospettiva è intollerabile per l’ambito ecclesiale?

Non affrettiamoci a conclusioni categoriche. Nella stessa Bibbia c’è una pluralità di generi letterari e di orizzonti linguistici che si amplia nel Nuovo Testamento e nelle opere patristiche. Nei Vangeli proprio quanto si manifesta come uscito alla lettera dalla bocca di Gesù (i logia) appare paradossale agli stessi uditori contemporanei: ‘questo linguaggio è duro’, ‘sei un samaritano e un indemoniato’. Evangelisti ed apostoli non hanno rinunciato a proporsi come ‘scandalo e follia’, ma nello stesso modo, in tempi più lunghi, i Padri e i Dottori della Chiesa hanno assimilato prima il linguaggio della filosofia, poi quello del diritto, senza rinunciare alle peculiarità di quello biblico.

Nel momento presente, non possiamo escludere che la Chiesa sia ad una svolta insieme di linguaggio e di contenuto e che per riuscire a parlare all’uomo contemporaneo debba accantonare, almeno ridimensionare, l’universo logico-razionalistico per ritrovare parole, concetti, giudizi capaci di perforare le corazze di pregiudizi, comunque di consolidate ma troppo immobili certezze dietro cui si riparano, su opposte trincee, il razionalismo laico e scientista e l’altrettanto eburnea dottrina dogmatica e morale.

Non faccio il vaticanista e non ho nessun interesse per gli schieramenti conservatori o progressisti, non ho opinioni, né aspettative culturali; dal Sinodo non mi aspetto né aperture, né chiusure, ma un aiuto concreto a rinnovare la fede mia e di chi mi sta a fianco.

In anni lontani ho studiato la storia del matrimonio cristiano abbastanza per capire che la comprensione e l’universalizzazione del suo valore mistico, di quello sacramentale e di quello civile hanno avuto percorsi e tempi molto diversi, almeno fino al Concilio di Trento. Non mi scandalizzerei se, di fronte al profondo mutamento dell’impatto del matrimonio cristiano sugli ‘effetti civili’ e sulla cultura di ogni tipo di relazione di coppia, si dovesse ripensare non la natura sacramentale del matrimonio cristiano, ma la disciplina della sua preparazione e della sua ‘manutenzione’, in vista di uno sviluppo ulteriore delle non superate, anzi ancora non del tutto espresse potenzialità sociali della famiglia. La scissione del binomio amore-diritto, che nell’area di maggior influenza della chiesa cattolica ha costituito per secoli il fondamento di una civiltà della famiglia, è un dato di fatto culturalmente maggioritario. Ricomporre il binomio potrebbe essere più difficile e meno necessario che non trovare le parole, i concetti, i giudizi per esprimere e far lievitare una ancora incompresa speranza di amore. Per questo spero che il documento finale del sinodo non faccia prevalere un’opinione tra le altre, cristallizzando una formula, anche se fosse l’ultima trincea della dottrina, tanto meno che si perda in ambiguità soggette ad interpretazione, o che si affidi alla flessibilità del caso per caso o alla relatività delle culture. La Chiesa non potrà mai rinunciare alla pretesa di ricondurre il pensiero mondano alla verità, ma oggi deve sapere che per farlo dovrà essere molto più fedele a se stessa, riuscendo a parlare il linguaggio del dono e magari del perdono, più, ma soprattutto prima di quello del vincolo e del dovere, sfidando il rischio di essere intesa, ancora una volta, come ‘scandalo e follia’. Di questi tempi, il linguaggio dello scandalo e della follia potrebbe essere inteso più facilmente di quello della conformità.

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