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Donne

NELLA LEGGENDA PER CASO

LUISA NEGRI - 08/04/2016

Tarsilla Durante (da “Il grembiule di castagne” di L. Negri)

Tarsilla Durante (da “Il grembiule di castagne” di L. Negri)

Giunta ancora giovanissima in Lombardia dal Veneto, dopo diverse esperienze di lavoro, e non tutte felici, entrò in casa di Liala negli anni Cinquanta, dove tuttora vive con la figlia di lei, Primavera Cambiasi. Tarsilla Durante, ormai Tilla, non lasciò più la sua “padrona” che le aveva dato il lavoro desiderato e l’inaspettato calore di una nuova famiglia. La sua vita, in parte simile a quella di tante ragazze come lei emigrate dalla campagna verso la città, è narrata dalla sua stessa voce. Che è racconto speculare a quello di Liala proposto nel numero scorso di RMFonline e dà il titolo al volume “Il grembiule di castagne” edito dal Comune di Varese nel 2001.

 

Aveva i capelli biondi e una redingote nera a righe bianche. Le scarpe erano pure bianche e nere. “Che bella sposina” mi aveva salutata, e non capivo che cosa voleva dirmi con quella espressione. Forse che ero giovane e graziosa. Ma quel primo incontro con la mia nuova padrona, nella sua bella casa milanese, non mi lasciava capire molto di lei.

Era alta e elegante, come me l’ero immaginata, ma anche un po’ austera. Mi riusciva difficile immaginare che fosse stata proprio lei a scrivere tante storie malinconiche e belle. Aveva un suo modo cauto di avvicinarsi alle persone.

Non tutti le avevano voluto bene, come seppi poi, e forse temeva di poter ricevere nuove delusioni dalla vita. Ci studiavamo tutt’e due. Lei voleva portarsi in casa una persona gradita e affidabile. Io speravo di trovare finalmente la padrona giusta, da servire con rispetto, se possibile con affetto e devozione. Ci saremmo studiate ancora per qualche tempo, prima di capire che andavamo bene l’una per l’altra. Lei non sapeva molto di me e m’accorgevo che cercava di indagare, per scoprire quello che non le avevo ancora detto. Ma io parlavo poco. Ero abituata a tacere e a non fare domande, da brava domestica.

Le mie precedenti esperienze di lavoro si erano concluse amaramente. La prima signora era moglie di un avvocato di Bologna. Mi aveva inviata da lei una zia. Lavoravo sodo di giorno e la sera riposavo leggendo. Mi piaceva la rivista Annabella, perché c’erano i romanzi a puntate di Liala. Tenevo la luce accesa a lungo.

La signora mandò a chiamare mia zia. “Tarsilla legge tanto” le disse.

“Non mi sembra un peccato”, aveva risposto la zia. Non pareva neanche a me. Ma in seguito pensai bene di nascondere le riviste nella federa del cuscino. Amavo leggere di tutto, ma Liala mi faceva sognare più di qualunque altra scrittrice.

Avevo poi dovuto lasciare quel posto per ritornare in Veneto, nella mia campagna. Tornavo nel mio piccolo paese vicino a Treviso, da mia madre: le era nato un altro bambino, e i miei avevano bisogno di me.

Così aiutavo in casa e mi davo da fare anche per guadagnare qualche soldo, perché ne avevamo pochi. Mi alzavo presto la mattina per cercare castagne, poi andavo a venderle e acquistavo quello che mancava. Una volta feci una raccolta più ricca del solito; avevo riempito il grembiule. Col ricavato mi comperai il vestito che mi occorreva da tempo.

Quando mamma non ebbe più bisogno di me, ritornai a servizio da una nuova padrona, questa volta al paese. Era una donna malata, bisbetica, che non riceveva mai nessuno. Il pomeriggio si faceva portar fuori, voleva che l’accompagnassi al caffè due volte al giorno: sul presto e poi, di nuovo, la sera. Lei si faceva ricondurre a casa dal marito, io ripercorrevo la strada da sola, al buio e in bicicletta.

Diedi gli otto giorni alla mia signora. Arrabbiata, la padrona scagliò un posacenere in direzione del marito. E l’indomani si vendicò: mi mise in strada la mattina presto, in sottoveste, senza darmi il tempo di vestirmi. Infilai in fretta una gonna e una camicia, misi il fagotto degli indumenti sulla bicicletta e corsi via.

Con la mia nuova padrona vivevano le sue due figlie. Primavera, che Liala chiamava Pri Pri, si occupava di una gran mole di lavoro per conto della madre: curava la corrispondenza e batteva a macchina. Aveva una bella voce: aveva studiato canto per tanti anni e sapeva tutto dell’opera, com’era giusto per una che si chiamava Cambiasi e vantava tra le sue parentele anche quella con il librettista Felice Romani.

Serenella lavorava per una rivista, viaggiava alla ricerca di novità fotografiche da presentare in una rubrica che s’intitolava: la “Vetrina di Serenella”.

Si viveva tra Varese e Milano. Finché venne il momento di stabilirsi per sempre a villa La Cucciola. Quando arrivammo, negli anni Sessanta, non c’era ancora niente sulla collina dei Miogni, solo qualche abitazione in mezzo ai prati. La mia signora era venuta a cercare pace in quella città che le aveva dato tanta gioia.

Fummo sole, lei ed io, per alcuni mesi, prima che ci raggiungesse la figlia Primavera.

Cominciammo in quel tempo a capirci, e non abbiamo più smesso di intenderci. La vedevo silenziosa, assorta al tavolo da lavoro, raggiante quando trovava soluzione ai suoi romanzi, crucciata quando non ci riusciva. I tempi di consegna dei suoi libri, che le lettrici reclamavano in continuazione, la obbligavano a un lavoro incessante. Ma se le capitava di rimanere un po’ senza scrivere, cercava subito quell’impegno che le faceva dimenticare le preoccupazioni quotidiane e le concedeva di vivere in un mondo suo, dove inventarsi quella felicità che per lei era durata troppo poco.

A volte la vedevo salire sull’auto, quando le giornate erano assolate e luminose, per andare verso il lago. Correva nei luoghi che non aveva mai smesso di amare, andava a cercare il ricordo del suo grande amore, si perdeva tra quelle strade dov’era stata con lui, osservava il nome del suo pilota scritto sulla targa di una via. Le pareva impossibile che quel nome potesse essere lo stesso della persona con cui aveva vissuto ore indimenticabili. Prima di sera ritornava. E noi le scoprivamo negli occhi un nuovo carico di malinconia.

Mentre continuavo a leggerla, sui giornali e nei libri, mi occupavo della sua cucina –una cucina minima, a base di tapioca e poca carne- delle sue camicie di seta, della cura di tutto quanto riguardava la sua vita e la casa. La sua famiglia diventò la mia. A volte si andava a Como, dalla madre di Liala. A volte era lei che veniva a trovare noi, o arrivava la nipotina, la figlia di Serenella, che rimaneva alla Cucciola per lunghi periodi.

In breve sono entrata anch’io nella leggenda di Liala. I giornali hanno scritto che, prima di conoscerla, mi consolavo per le mie mani arrossate leggendo i suoi romanzi. E che un giorno ero capitata alla sua porta, senza saperlo, come uno dei personaggi delle sue storie. Ad ogni compleanno della mia padrona comparivo nelle foto sui giornali. Pri Pri lodava in pubblico le mie torte di mele, il mio tè alla menta.

Gli ultimi anni con Liala sono stati di ancora maggior vicinanza. L’ho vegliata nelle notti di malattia, la sostenevo e la curavo nella sua immobilità, e lei s’affidava alle mie mani con fiducia totale. Mi chiamava “il mio Tilìn d’or”.

Abbiamo fatto di tutto per averla con noi il più a lungo possibile e Liala ha fatto di tutto per non abbandonarci. Annotava ogni anno su piccoli biglietti: ci sono ancora, eccomi qui, un altro Natale insieme.

Nella mia terra sono tornata sempre più di rado. Non ho allentato i vincoli con la mia famiglia, nonostante la lontananza, ma sono stata ingenua a credere che l’affetto non teme le distanze. E ora capisco che la mia vita è per sempre qui.

Una sera la padrona mi ha chiamata, mi ha preso la mano, mi ha guardata negli occhi: “Promettimi di non lasciare sola Pri Pri” mi ha chiesto.

Ho promesso.

Quella sera stessa ci ha lasciate. Le abbiamo messo la camicetta di lamé, la gonna lunga color avorio, le scarpine d’oro, come voleva lei.

Ci siamo sentite molto sole. Nella nostra casa di ragazze era mancata la ragazza più importante.

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