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Donne

DOMINATA E DOMINATRICE

LUISA NEGRI - 29/07/2016

grassiniVaresina di nascita, discendente per parte di madre del pittore Bernardino Luini, Giuseppina Camilla Maria Grassini (1773-1850) ebbe fama di grande artista per la sua bella voce di contralto che le permise di cantare nei teatri di tutta Europa. La sua avvenenza la condusse nelle braccia di Napoleone e anche del rivale e vincitore di lui, il Duca di Wellington. Fu più volte ritratta dalla celebre pittrice Elisabeth Vigée Le Brun.

Mi avete messa in posa, cara Elisabeth, per cercare di scoprire nei miei occhi quei sentimenti che dovete trasferire sulla tela. So bene che non è il colore dei miei capelli o dei miei occhi, né quello della mia carnagione o dei miei abiti che v’importa per costruire il mio, e vostro, ritratto: ai particolari esteriori si può supplire con la fantasia e l’intelligenza, tanto più con il vostro buon mestiere. Ma il mistero di un’anima non si traduce nell’arte con la maestria del pennello e coi soli colori: perché, lo sapete, è scritto con l’inchiostro di una vita.

Del resto voi intendete perfettamente quanto vi sto dicendo. L’ho capito subito, quando i nostri sguardi si sono incontrati per la prima volta, che mi avreste comunque scoperta, perché siete insieme donna e artista, e perché le vostre doti di brava ritrattista me lo confermano. Per questo, Elisabeth, non vi lascerò troppo a lungo nel dubbio, che è solo vostro, di non potere strappare i segreti della mia anima. E mentre voi continuerete a osservarmi, sarò io stessa a raccontarvi di me.

A guidare la mia vita sono state le note del violino di mia madre. La mia vera musica è stata quella segnata dalle sue mani, dagli scuotimenti della sua bella testa nera, dal suo profilo di cammeo sul violino. Un viso d’angelo, mi pareva, non diverso da quei delicatissimi ritratti che il suo avo pittore Bernardino Luini aveva lasciato sui muri o sulle tele, nelle chiese e nelle case dei signori. Non l’ho mai confessato a nessuno, e forse io stessa me ne accorgo solo ora -ora che poso e m’interrogo per voi- ma quelle note hanno tirato la mia vita, giorni per giorno, come un filo incantato. Quand’ero piccola e vedevo mia madre esercitarsi per ore, assorta nella melodia che usciva dallo strumento, senza che più s’accorgesse degli altri intorno, provavo un sentimento come di adorazione e di invidia verso di lei, per la luce che le vedevo sul visto, per la distanza che in quelle ore ci separava, ma insieme mi attraeva e mi chiedeva di penetrare nel suo segreto.

D’estate mia madre apriva le finestre e lasciava che le sue note invadessero l’aria e la luce della strada, che andassero a bussare alle case vicine, sollecitando pensieri e sentimenti. Io mi dicevo che volevo essere come lei, invidiavo quello strumento, desideravo essere il violino tra le sue mani.

Poi, all’improvviso, lei smise di suonare. Forse fu il giorno in cui ebbe un alterco con mio padre. Mi pare di ricordare che lui le strappò il violino di mano e poi corse a chiudere la finestra. Come se avesse voluto trattenere quelle note che avevano troppo osato.

Il bel viso di mia madre s’abbuiò per qualche giorno. In seguito m’accorsi che il violino era sparito per sempre dal mobile alto su cui lei lo teneva, riposto nella custodia.

Da allora la vidi sempre più indaffarata coi figli, il viso spianato in un’espressione seria e assorta. Mentre un altro fratello veniva ad allungare la lista della famiglia.

Non saprei dire quanti mesi o anni passarono. Ma un giorno la sorpresi a cantare: era di nuovo primavera, mio padre era lontano per lavoro e lei aveva aperto le finestre mentre sfaccendava per le stanze. La spiai da dietro la porta, incantata da quella voce che sentivo per la prima volta. Trattenevo il respiro per evitare che si accorgesse della mia presenza, per paura che smettesse: mi pareva che avesse trasferito la voce del violino nella sua voce, e che il suo canto celasse una preghiera inespressa.

Il giorno dopo mi trovai a ripetere le parole e l’aria triste della sua canzone. Lo feci più e più volte; finché m’accorsi che, proprio com’era accaduto a me il giorno avanti mentre l’ascoltavo, mia madre mi osservava estatica, la stessa luce negli occhi di quando faceva cantare il violino tra le mani. L’indomani mi portò dal maestro di cappella di San Vittore, un uomo secco e basso, dai modi energici, che, dopo aver esaminato la mia voce, assentì con grande interesse verso la mia immatura persona.

È cominciata così, mia cara Elisabeth, la carriera di Virginia Grassini. Mia madre seguiva i miei progressi canori con una trepidazione che non mi sarei mai aspettata, e con mia grande soddisfazione: ero riuscita a far convergere sulla mia persona tutto quell’interesse che l’avevo vista disperdere fino ad allora tra la casa e i figli, e le mille cose della sua vita di madre e di sposa. Erio io finalmente al centro di ogni sua attenzione, non mi toccava più competere col violino, coi fratelli, con mio padre, con nessun altro. Al contrario mi spettava un posto speciale, dove sedere con mia madre al fianco, certa di ogni sua premura. Lei mostrava di tenere molto a che riuscissi a cantare, a far fruttare i miei ormai comprovati talenti di cantante più che se fosse lei stessa impegnata. Capisco ora che desiderava ottenere per me quello che non l’era stato concesso.

Ma noi due eravamo perfettamente d’accordo: sarebbe stata quella la mia strada. Stranamente concordava anche mio padre. Aveva forse capito come le rinunce di mia madre avrebbero potuto trovare compensazione, quasi una rivalsa attraverso le doti e il successo della figlia. A me pareva che la mia voce me li tenesse tutti attorno, che fosse un mezzo con cui legarmi agli altri.

Fu così. La mia vita è stata un’infinita esibizione canora, costellata di successi e riconoscimenti, pervasa da commozione e da passione.

Ho conosciuto lodi e approvazioni, ho visto le lacrime sulle guance di chi mi ascoltava. Io dispiegavo la voce usandola come uno strumento di magia, per catturare e tenere avvinti quelli che mi stavano ad ascoltare. Mia madre aveva imprigionato le sue note tra le mura di casa. Io potevo rimandare quelle stesse note, attraverso la mia bella voce di contralto, sugli importanti palchi d’Italia e d’Europa. Ho cantato a Parma e a Milano, a Parigi, a Londra e a Vienna, e in tutti i più noti teatri. Invadevo le orecchie di quelli che mi ascoltavano, facevo palpitare i loro cuori, sconvolgevo i loro sentimenti. Non importa chi fossero, riuscivo a raggiungere e a scuotere anche gli animi dei meno sensibili. Contrariamento a quanto si possa pensare, i più vulnerabili erano gli uomini e i potenti. E sono convinta che, più della mia avvenenza fisica, di cui tanto s’è scritto e detto, era la mia voce ad avvincerli, la passione e il sentimento che riuscivo a trasmettere, che mi salivano dall’anima facendosi canto.

Di me e di Napoleone parlerà la storia. Dirà di questa Giuseppina, o Josephina, che rivaleggiò con l’omonima creola, la sfolgorante moglie dell’imperatore. Racconterà della femminile crudeltà della mia inopportuna presenza nel loro talamo.

Non ho avuto rimorsi. La prima a non averne era Giuseppina; a lei importava di primeggiare nei salotti, di essere acclamata al fianco del vincitore. Non si faceva troppi scrupoli ad appagare le sue voglie con gli uomini che l’attraevano, quando lui era lontano, sui campi di battaglia. L’imperatore lo sapeva e ne soffriva, ma a sua volta cercava altre donne.

A me piacque l’idea di essere strumento dolcissimo nelle sue mani di uomo potente. Ma mi piaceva soprattutto poterlo a mia volta dominare. Mi sorprendevo a desiderare che le note del mio canto inseguissero l’uomo più importante del tempo ovunque egli fosse, nelle sue tante dimore, nei salotti della capitale francese, nella tenda o sui campi di battaglia. Forse lo inseguirono anche nell’esilio.

Ma già prima di incontrarlo avevo compreso, non senza un certo disappunto verso me stessa, che se permettevo a un uomo di dominarmi non era per desiderio di una promessa d’amore duraturo, per il pegno di un legame intenso, ma per prevalere, a mia volta, su di lui. L’immagine spenta di mia madre e la sua vita buia mi dicevano che dovevo saper dominare per non essere dominata. Per raggiungere il mio scopo usavo i sistemi più dolci: la bellezza, l’armonia della voce, la sinuosità del fisico, i modi signorili.

Quando il mio amore con l’imperatore si fece ardente, mi sorpresi a pensare che toccava a me devastare l’animo di chi era assuefatto a devastare il mondo.

Ma quella sera di giugno del 1800, quando cantai per lui la Marseillese dal palco della Scala -e i nostri occhi per la prima volta s’incontrarono e mi parve di vederlo impallidire- quella sera so che fui vicina a lui come non lo sarei mai più stata in seguito.

Lo amai, allora, come non l’avrei più amato. In quello sguardo, in quel suo pallore che era anche il mio, fummo avvinti ancora prima di amarci. C’eravamo subito riconosciuti, entrambi fatti di una stessa materia, degli stessi devastanti sentimenti. La voglia di incontrarci nasceva da una sensazione d’inespressa malinconia, che il mio canto aveva rivelato, e che ci accomunava entrambi, facendoci sentire soli, e già uniti in questa nostra solitudine, davanti al mondo. Nasceva dalla consapevolezza che la nostra capacità di eccellere e dominare, di sfolgorare di successo e di bellezza, come quella sera stava avvenendo, non sarebbe durata in eterno. Tanto più i traguardi sono elevati, tanto più triste è comprendere la provvisorietà del tutto.

Il giorno seguente fummo sul Lago Maggiore, all’Isola Bella. Nei profumi dell’onda sentivo la presenza di lui vicina e incalzante. Sentivo me stessa inquieta e percepivo l’irritazione di Giuseppina. Osservavo il lago, lo splendore dell’acqua sotto il sole e il cielo, e mi interrogavo sul mio destino.

In realtà avevo già deciso.

L’imperatore mi chiamò con sé in Francia. E fui da allora la sua protetta.

La nostra bruciante passione durò poco, contrastata dalle esigenze di entrambi, dai caratteri così simili e impetuosi: rassegnato lui alla infedeltà delle sue amanti, io alla sua smania di conquiste, alla sua instancabile sete di potere. Mi fu comunque riconoscente: per la bellezza che gli avevo donato, per la mia voce, per il privilegio della mia arte vicina, quasi trofeo da aggiungere ai trofei che gli piaceva portare con sé dai paesi vinti. E seppe essere generoso, come dimostrò con tutte le donne della sua vita: dalla sorella Paolina, la donna che amò forse sopra tutte, a Giuseppina, a Maria Latigia, che fu la sua seconda sposa e la madre di suo figlio..

Mi fissò un appannaggio, dimentico perfino della mia fuga d’arte e d’amore con un musicista di cui m’ero invaghita, e mi concesse anni di trionfi e di soddisfazioni sui palcoscenici del suo regno.

Non so se seppe poi che divenni l’amante del suo vincitore, il duca di Wellington.

Ma sono sicura che avrebbe capito, memore del nostro turbamento in una lontana sera di gloria. Io dovevo continuare a cantare, dispiegando la voce, come quel giorno, nella mia casa di bambina. Sentivo, e continuo ancora oggi a sentire alle spalle, la presenza di mia madre che m’ascolta estatica: in silenzio, perché non mi accorga di lei.

Vedete bene, cara Elisabeth, che non vi ho celato i segreti della mia vita. Ho voluto rivelarveli io stessa, in tutta sincerità, perché possiate fare il vostro ritratto al meglio. Siete una donna intelligente, so che lavorerete bene; forse meglio voi con il vostro pennello di quanto non abbia saputo fare io con la mia voce.

Ma ora ditemi, Elisabeth, concedete che sia io questa volta ad appagare qualche curiosità: cosa andate cercando di voi stessa in chi posa per voi?

Le vostre belle mani che da anni reggono i pennelli sono rigate da lunghe vene blu, avete solchi di tristezza nella fronte e occhi malinconici.

Quali segreti del vostro animo seppellite nel cuore dei vostri ritratti?

*Questo racconto chiude la serie di ritratti femminili riportati dal libro “Il grembiule di castagne” (edizioni Comune di Varese, 2001)

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