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Apologie Paradossali

LESBO E VIENNA

COSTANTE PORTATADINO - 29/04/2016

austria(S) Da dove ripartiamo, da Lesbo, dove abbiamo lasciato il Papa pochi giorni fa o dalle mura di Vienna assediata nel 1683?

(C) Il paradosso è formidabile, nel 1683 bastò un frate cappuccino a riunire moralmente l’Europa e a fermare la guerra portata dal Califfato, oggi si muove il Papa in persona per raggiungere un obiettivo pacifico, di portata e di costo ben minore e la risposta è un piccolo muro, anzi un reticolato di poche centinaia di metri, ma molto pesante sul piano simbolico.

(O) E anche propriamente politico, se lo mettiamo in relazione alle intimazioni fatte alla Grecia sul piano economico, una nuova stretta in fatto di austerità, proprio nel momento in cui deve fronteggiare la crisi-profughi aggravata dal ‘muro’ opposto dalla Macedonia.

(C) Non so se sia giusto dire che la crisi dell’Unione Europea si sta aggravando o se si deve semplicemente riconoscere che una vera unità di intenti non c’è mai stata.

(S) È ovvio non c’è mai stata; non c’era un ideale comune sotto il mantello degli interessi, che potevano forse essere comuni, ma che sono stati sfruttati solo dai più forti, tra i quali noi. Non ci siamo. Il Papa, poi, a questa Europa della finanza e del liberalismo in economia e in etica dà solo fastidio. Se chiede una cosa puoi star sicuro che l’UE farà il contrario. E ora anche la cattolicissima Austria alza il suo muro, poco importa se corto e se, nelle intenzioni, vuole proteggere solo dall’immigrazione illegale.

(C) Dell’Austria, credo sia giusto parlare un po’ più approfonditamente. Nella sua storia potremmo ritrovare una profezia dell’Europa contemporanea. Prendo lo spunto (ma solo quello) dall’articolo di fondo del Corriere del 25/4, a firma di Claudio Magris: “Diceva ai tempi asburgici un motto imperiale: Austria erit in orbe ultima, l’Austria durerà sino alla fine del mondo, sarà l’ultimo impero a tramontare. <->. Indubbiamente c’è stata — e c’è ancora, culturalmente — una grande Austria sovranazionale, crogiolo pure drammatico ma fecondo di genti, di lingue, di culture; culla e interprete di impareggiabile genialità della complessità e delle trasformazioni che hanno mutato il mondo e le visioni del mondo. Un’Austria pluri-nazionale — il cui sale era forse in primo luogo la contraddittoria ma incredibilmente vitale simbiosi culturale ebraico-tedesca — ammirata pure da chi l’ha combattuta, come gli irredentisti triestini; l’Austria il cui imperatore si rivolgeva «ai miei popoli».

Secondo me, fu un impero non imperialista, almeno per trecento anni, dopo il tramonto del sogno universalistico di Carlo V, attento piuttosto ad impedire l’affermazione di una egemonia continentale francese e di un’espansione turca nei Balcani, finché la violenta crescita della potenza prussiana poté fondare il nazionalismo germanico, che divenne contemporaneamente una minaccia ed un’ attrattiva per Vienna. La sconfitta nella guerra con la Prussia nel 1866 (quella che noi retoricamente chiamiamo III guerra d’indipendenza) portò l’Austria a subire sempre di più l’egemonia germanica e a perdere la tradizionale funzione equilibratrice. Non più alleanze matrimoniali (Felix Austria nube), ma politica di potenza, fino allo sciagurato attentato di Sarajevo, alla volontà di dare una lezione al nazionalismo serbo, alla tragedia della prima guerra mondiale e alla ancor più tragica, per l’Austria, pace di Versailles, che la ridusse, ancorché indipendente, ad un satellite della ancor potente Germania.

(O) Fermati qui, sennò ci annoi con la tua lezioncina. Magris sostiene una specie di dualismo: “Anche dopo la dissoluzione dell’impero la piccola Austria è stata straordinariamente ricca e vitale in ogni campo dell’arte e del sapere. Ma c’è stata ed evidentemente c’è un’Austria diametralmente opposta, torva gretta; quella che nel 1938 ha accolto tripudiante «l’invasore» Hitler, che pure la declassava a marca alpina di confine.Sceglie questo avvenimento come campanello d’allarme per l’Europa di oggi che, di fronte all’incapacità di risolvere il problema dei profughi, aprirebbe la porta ad una nuova barbarie.

(C) Qui dissento da Magris, che pure conosce meglio di me la cultura mitteleuropea. A me è bastato leggere i romanzi di Joseph Roth per capire che si è verificato un lento decadimento morale, una malattia cronica che ha attraversato lentamente il lungo regno di Francesco Giuseppe, per acuirsi drammaticamente nel dopoguerra. Al protagonista de “La cripta dei Cappuccini”, al momento dell’annessione alla Germania, non resterà che scendere silenzioso e impotente a contemplare la tomba dell’imperatore. Non la Wermacht, ma l’egemonia culturale portò alla fine dell’Austria felix.

(S) Ma questa tua tesi porta a concludere che l’Europa potrebbe dissolversi per un male intimo e nello stesso tempo comune a tutte le sue componenti nazionali, non per l’effetto di una violenza esterna, altrimenti dovremmo paragonare Frau Merkel o Schaeuble a Hitler!

(C) Esatto! Questa temuta barbarie non c’è proprio, quanto meno non è riducibile alla politica ‘di destra’ o populista che dir si voglia; del resto lo stesso Magris parla di necessaria ‘quadratura del cerchio’ per conciliare la xenofobia ingiustificata con il problema reale del costo dell’accoglienza. Io aggiungo che la soluzione migliore è, ovviamente, (dico una banalità, lo so, come se fosse facile) agire sulle cause e cercare di mantenere sulla loro terra natale sia i profughi di guerra sia i rifugiati economici. Per questo non dobbiamo tornare alla Vienna del 1683, pur con tutta la riconoscenza per Marco d’Aviano e per Giovanni Sobieski, ma a Lesbo, con Papa Francesco.

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