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Parole

IL “RISTRETTO” CHE SI ALLARGA

MARGHERITA GIROMINI - 20/05/2016

carcere“Lettera aperta alla mia città” è il titolo del concorso promosso dal Carcere Circondariale di Varese ed esteso alle carceri lombarde, la cui premiazione è avvenuta il 5 maggio nella cornice del Salone Estense.

La frase più forte dell’intera manifestazione è stata, per me, quella pronunciata in un momento informale da Alessandro, giovane “ristretto“ (cioè rinchiuso in carcere), vincitore di una menzione speciale per la lettera scritta a Quarto Oggiaro, sua complessa cittadina natale. Mentre gestiva il buffet offerto ai convenuti alla fine della manifestazione, guidando da esperto i ragazzi della scuola professionale Enaip di Busto Arsizio, ha risposto alla mia domanda, un po’ indiscreta, su quanto gli mancasse per ritornare libero, per essere, come esplicita il freddo e desueto linguaggio della burocrazia, non più ristretto. Ha sospirato, esclamando: “Mi mancano quattro anni. Ce la posso fare solo se mi permettono di vivere giornate come questa”.

Qualche ora di libertà in un pomeriggio di sole, le portefinestre del salone spalancate sui giardini in fiore, in mezzo alle persone “normali” che bevono e degustano parlando tra di loro. In mezzo a noi, i normali, passeggiano e indugiano i premiati, alla ricerca di una mano che stringe la loro per complimentarsi, stupiti di essere stati scelti per il loro lavoro, frutto delle ore nei laboratori, animati dai volontari catapultati in carcere dal mondo esterno, portatori della tanto desiderata normalità.

Lo scorso giovedì 5 maggio ha regalato ai “ristretti” presenti un respiro di vita vera, animata, mi immagino, da una inebriante sensazione di libertà, un piccolo anticipo di quella che ritroveranno una volta usciti, un giorno non così tanto lontano almeno per coloro che, grazie a permessi speciali, sono potuti venire a ricevere personalmente il premio. Altri, invece, come Alberto, primo premio per la lettera alla sua città, non c’erano. Alberto ristretto nella sua cella, chissà se avrà sognato quella busta premio meritata, ma ritirata al suo posto da un’educatrice del suo carcere, che gliela recapiterà “dopo”, insieme con i complimenti della Giuria.

Alberto, Alessandro, Antonio, Giuseppe, Italo, Paolo e Youssef, Moulud,e tanti altri nomi di partecipanti senza volto. Che hanno commesso reati, crimini non sappiamo di quale entità, ma che stanno pagando giorno dopo giorno, con la reclusione, la rinuncia forzata agli effetti, alla normalità di un pomeriggio di sole, al piacere di un caffè bevuto al solito bar, accompagnati dal saluto amico del proprietario.

Il concorso chiedeva loro di scrivere alla propria città, immaginata, sognata, desiderata, che loro sanno stare lì, fuori dal cancello, città che si augurano pronta a registrare la loro uscita dal carcere (stavo per scrivere “ad attendere la loro uscita”, ma sarebbe stato pretendere troppo).

Poetico Antonio che dice alla sua Napoli: “Città mia, eterno contrasto tra bellezza e disfacimento, vivi nell’attesa che qualcuno ti salvi prima che qualcosa ti distrugga …”

Scrive Giuseppe: “Palermo sei, un giardinu mezzo di lu mari, fichi d’India e cannoli, rosa di pietra e di fiori, i colori del marzapane, il caldo che confonde la vista, il sospiro dello scacciapensieri”.

Mentre Moulud, chino sul foglio a scrivere con fatica in una lingua non sua, si rivolge alla lontana città del Maghreb: “Mia città, non è così facile trovare il principio …. La mente costruisce, la mano distingue “.

Poi ascoltiamo leggere il lungo testo di tre detenuti che lo hanno prodotto in gruppo, bell’esempio dell’acquisita capacità di solidarizzare, condividere e cooperare. Ci chiedono, chiedono a noi che stiamo fuori: “ Fateci pulire i boschi, i parchi, il vostro giardino, non continuate a chiamarci solo “ex”, ascoltate il nostro grido …”.

Infine il già citato Alberto, che ho potuto conoscere solo attraverso la sua prosa colta, dalle parole scelte con cura, dalle frasi ben costruite, parla alla sua città, Como, le chiede perdono per essere stato un figlio disonorevole: “So che hai sofferto per me. Le mie radici tremando me l’hanno sussurrato quando mi hanno rinchiuso in carcere. Ti vorrei chiedere perdono … Tanto tempo è trascorso, tanto ne passerà. La speranza rimane sempre accesa e vigile, sopra ogni cosa, come la Croce che dal monte illuminava e vegliava su di me tutte le notti. Ti voglio bene, mia amata Como!”.

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