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Donne

DIETRO LO SPORTELLO

LUISA NEGRI - 20/05/2016

bonfiglioliImpiegata di banca, per scelte altrui e non per vocazione propria, in quell’istituto che Edvige Toeplitz frequentava in quanto vedova del suo fondatore e proprietario, Maria Bonfiglioli (1915-1972) simboleggia la dignitosa quotidianità di molte donne durante la seconda guerra mondiale. Il racconto, che si lega a quello riguardante la Toeplitz e precedentemente pubblicato, è insieme rappresentazione di quell’intima solidarietà che le avvicina, anche quando le loro vite sembrano appena sfiorarsi.

È venuta oggi in banca donna Edvige Toeplitz. Ha portato una ventata di freschezza e gentilezza che fa piacere in momenti come questi. Vestiva di bianco, come sempre. Non solo d’estate le piace indossare abiti candidi e leggeri, ma anche d’inverno, ho notato, predilige cappotti e cappelli chiari. Colpisce, della sua figura piccola e minuta, quell’incedere a passi lievi verso il banco. Non per niente ha fatto la ballerina e l’attrice e, ho sentito dire, nella sua patria la chiamavano la “Duse polacca”. Per quanto mi pare non cerchi di darsi arie di personaggio. Anche la voce è minuta e modulata su toni bassi, benché sia evidente si tratti di una voce abituata a farsi intendere e a comandare.

Donna Edvige è la vedova del banchiere Toeplitz, che è stato un tempo il padrone di questa banca dove lavoro da quando ho ottenuto il diploma di ragioniera. Dopo aver terminato le scuole non volevo venire qui a lavorare. Ma l’istituto mi aveva segnalata perché ero risultata tra i migliori allievi del corso e così non c’è stato verso di rimanere a casa, nonostante i miei pianti. Siamo una famiglia numerosa, il babbo è vecchio e non possiamo pesare sui guadagni della sua pensione: ha già fatto molti sacrifici per noi. Dopo che trasferì la famiglia da Luino a Varese, per far studiare noi figli, prendeva ogni giorno il tram che, attraverso la Valganna, lo riportava fino alla sua dogana e al suo lago, dove anch’io sono nata.

Luino certo mi piaceva di più di questa piccola città che adesso odora di guerra e di lutti. Sarà anche perché il villino di Creva significava l’infanzia, e la spensieratezza di anni senza preoccupazioni: eravamo una famiglia giovane e papà era conosciuto e riverito come il direttore della dogana.

Oggi anche per noi tutto è cambiato. Pensavo mi toccasse una giovinezza diversa, ma lamentarsi è inutile. E ci sono situazioni che non riusciamo a capire.

Per andare al lavoro percorro ogni giorno il Viale delle Vittorie. Passo più volte davanti a una grande villa. Ne esce, da mattina a sera, una nenia ripetitiva e soverchiante, una musica triste che mi colpisce per la sua insistenza ossessiva. Anche la villa è triste, dice qualcuno. Io ho paura di quello che succede lì dentro, ho paura, soprattutto la sera, perché non so cosa ci sia dietro quella musica.

La guerra ci sta uccidendo un po’ tutti. E anche noi siamo morti dopo che Chicco è ritornato dal Montenegro con una pallottola nel cuore, la camicia verde di alpino strappata e ridotta in brandelli. Era partito volontario con la Julia, desiderava dare il suo aiuto di combattente come gli altri fratelli.

Papà è diventato vecchio di colpo, la notte si alza spesso, percorre le stanze della casa con passo strascicato, va in cucina a bere un bicchier d’acqua. A me pare di sentirlo scostare le tende, come se stesse guardando verso il cielo. Nonostante tutto quello che ci è già toccato, sembra abbia l’istinto di continuare a difenderci dai pericoli della guerra. Teme i bombardamenti che si fanno sempre più minacciosi. Qui vicino abbiamo l’Aeronautica Macchi, si dice che faranno di tutto per colpirla. E lui è convinto che un giorno o l’altro ci riusciranno.

Il singhiozzo che ormai accompagna sempre il sonno di papà non è però dettato dalla paura, ma dall’angoscia che gli è subentrata dopo la morte di Chicco. E temo davvero che il suo cuore non resisterà troppo a lungo.

Forse il fatto di lavorare qui, ora, è per me una fortuna: mi toglie ogni pensiero di troppo. Il contatto con la clientela, il lavoro e le interminabili somme per far quadrare i conti, a volte fino a sera, mi tengono la testa sempre occupata. Evito anche di sentire Laura che, mi racconta angosciata la mamma, si sfibra sul pianoforte con il suo Chopin: mia sorella sta dando ancora segni di squilibrio. Lo vedo da quante volte lava le mani sotto il rubinetto, dalla fissità dello sguardo quando si toccano certi argomenti che non possiamo fare a meno di affrontare. Anche Anna, la maggiore, ha i suoi guai: ci sente sempre meno, il suo udito si fa ancora più debole. Ma ha il suo buon impiego alla Conciaria, da anni, e questo la appaga e la distrae dalla menomazione che la perseguita fin da bambina.

Col tempo anch’io, come Anna, ho acquistato bravura e sicurezza nel lavoro e poi, da quando gli uomini sono partiti per la guerra, la mia presenza si è fatta ancora più necessaria. Il direttore, una persona fine e benevola, mi dice che sono io ora l’uomo della banca e questo mi ripaga delle angosce dell’inizio, per la paura di non saperci fare e anche per l’idea di essere dietro a un banco, come in un negozio, e di dover contare e porgere i soldi da mattina a sera. Mi pareva, questo, un modo d’intrattenersi con i propri simili un po’ volgare. E davvero l’idea di una volgarità insita nel gesto di porgere il denaro non l’ho ancora del tutto superata, anzi credo che non la supererò mai.

Con donna Edvige però non mi capita. Davanti al mio sportello osservo ogni giorno mani troppo grasse, o mani avide, o mani vecchie e venate, con dita inanellate all’eccesso. Donna Edvige ha invece mani chiare e leggere come colombe. E quando ritira i biglietti di banca ha gesti quasi invisibili. Non vedo la borsa in cui vengono accolti i soldi. Vedo invece la sua grazia mentre s’accomiata con un cortese saluto. “Riverisco” mi dice, e sorridendo s’avvia alla porta con gli stessi passi leggeri di quando arriva.

Mi chiedo se la guerra ha portato anche a lei grandi dolori come è toccato a me e a tanti altri, mi chiedo se si accorgerà delle privazioni enormi cui siamo sottoposti noi comuni mortali, se si prova a immaginare cosa significhi fare ore di coda per portarsi a casa un pezzetto di carne e un po’ di zucchero per un padre vecchio e che va sostenuto nel suo dolore, o per trovare uno scampolo di stoffa da ricavarci un vestito dignitoso.

Mi guarda con garbo e rispetto e mi pare mostri simpatia verso di me, se non altro per il fatto che sceglie sempre il mio sportello per le sue operazioni. Qualche volta mi domando anche quale considerazione abbia la moglie di un banchiere per un’impiegata di banca. Se capirà che il mio essere qui dipende da una pura questione di necessità economica, che le mie aspirazioni sarebbero altre.

Se mi sposerò, non manterrò il posto di lavoro. Dice mia madre che per una donna sposata non è né possibile né conveniente lavorare fuori casa. Forse sono pensieri orgogliosi i suoi, e a me pare lo siano, ma la famiglia di mia madre era abituata a farsi servire, non a servire. A volte mi sento in bilico tra voglia di lavorare e voglia di difendere un rango, ormai ridicolo, che del resto nella mia famiglia s’è ormai perso e che pure un orgoglio antico, di mia madre e di mia sorella Laura, si ostina a rievocare. Aristocratici, medici e docenti universitari, patrizi che hanno contato qualcosa nella storia delle loro città e paesi, dove sono rimasti i loro nomi sulle targhe delle vie e dei palazzi: mia madre mi ha raccontato spesso le vicende della nostra casa. E l’album di famiglia vanta foto di signori austeri e signore dall’aria raffinata, bambine e bambini in abiti eleganti.

Ma chi passa di qui non sa niente di me, di queste cose, non sa che dietro lo sportello c’è tanto orgoglio, tanto dolore e, nonostante tutto, la voglia di vivere e di ricominciare. Non ho ancora trent’anni e via da qui ci sono altri due fratelli, alti ed eleganti, che, spero, forse un giorno torneranno. C’è un collega che mi si rivolgeva con simpatia e con un sorriso buono e sincero, di cui non ho più notizie da settembre. Anche degli amici dei miei fratelli non sappiamo più niente da allora. Frequentavano la nostra casa ogni giorno, riempiendola di allegria. Ho ancora desiderio di quella allegria, delle loro risate, anche se sembra tutto così lontano.

Scoppierà un giorno la pace, com’è scoppiata la guerra. Però io non scenderò in piazza con gli altri a ballare. Non ne sarei capace. Ballerei con passi stonati.

Non so perché mi vengono per la testa tanti pensieri mentre penso a donna Edvige. Questa mattina è venuta per farci gli auguri di Natale. Da vera signora ha portato un piccolo dono per tutti. A me sono toccate alcune saponette alla violetta. Ha porto tutto con garbo, senza dar l’aria di volerci in qualche modo ripagare delle nostre fatiche. Se non fossero sue, forse mi sentirei ferita nell’orgoglio. L’anno scorso regalò calze di seta. Mi sembrava imbarazzante prenderle. Ma trovò le parole giuste, mentre me le porgeva, da donna a donna, e alla fine riceverle fu bello.

A casa, ho tolto il pacchetto di donna Edvige dalla borsa. S’è sprigionato per la stanza un profumo delicato e sottile, un sentore di buono e di fresco che mi sembra un lusso troppo lontano dalla mia vita, e mi ha fatto quasi girare la testa. Si può ancora godere di questi piccoli piaceri, si può ancora sperare che tornino ad essere nostri? Non so, non so davvero. Ma ho paura persino di questo profumo che mi piace tanto. Ieri notte i bengala hanno illuminato il cielo a giorno. Bisogna far finta di niente, di non aver visto.

Le saponette alla violetta sono due. Voglio metterle da parte. Le regalerò, una ciascuna, alle mie sorelle più grandi, la sera della Vigilia. Mi mancavano giusto solo i loro regali. Per mamma ho già in serbo una sciarpa di voile, per papà un pullover di lana, fatto da me. Non sappiamo ancora quanti saremo attorno al tavolo. Chicco non c’è più, Giulio è prigioniero in Polonia, lo sa Dio quando potremo rivederlo, e quasi certamente neanche Roberto verrà.

Mamma metterà lo stesso la tovaglia bianca di lino. Ci saremo noi donne, con papà, attorno al tavolo.

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