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Parole

RIANNODARE IL FIOCCO

MARGHERITA GIROMINI - 18/11/2016

scuolaUn’alunna degli anni in cui sono stata maestra, attraverso un’amica che su mio suggerimento si reca nel suo ufficio per informazioni legate al servizio pubblico di cui si occupa, mi manda, insieme con i saluti, un ricordo.

Bambina vivace, sempre in movimento e immersa in una fattiva agitazione, esile biondina che poco assomiglia alla donna adulta, scura di capelli, alta e forte, di oggi. Brava in disegno, abile nel riprodurre fumetti, di poche parole rispetto a tante altre bambine della classe tutta femminile di allora.

Questo ricordo di lei. Nel tempo, quando ci siamo incontrate, abbiamo parlato degli anni delle elementari.

Ma stavolta, ai saluti viene allegato un ricordo: la maestra, cioè io, passando tra i banchi, le riannodava il fiocco che portava quasi sempre sciolto sul grembiulino bianco. Devo dedurre che il fiocco si sciogliesse così spesso per via del suo continuo agitarsi.

Provo a richiamare alla memoria quel gesto, ma non riesco a riconoscerlo come mio mentre alla mente si affacciano altre immagini.

Perché vengo colpita da questo particolare, da un ricordo all’apparenza insignificante della mia alunna? Perché se il mio ricomporre il fiocco è rimasto vivo nella memoria, deve aver rappresentato qualcosa: un segno di affetto, un messaggio di cura, un’offerta di attenzione alla sua condizione di bambina, vale a dire “Ti vedo, ti conosco, ti riconosco”.

Ecco che riannodare un fiocco equivale a una carezza, può sostituire le parole: “Sono passata davanti a te mentre mi muovevo tra i banchi per … correggere? aiutare? Ti ho visto in disordine e ti ho ricomposta da brava alunna!”.

Rifletto su come i bambini registrano l’amore degli adulti nei loro confronti: con modalità che ci sono sconosciute non in quanto segrete ma per il fatto che, la psicologia lo insegna, un bambino non è un piccolo adulto, è UN bambino, un individuo completo di una propria visione del mondo e della realtà. Le parole di noi adulti potrebbero anche non sfiorarlo, non smuoverlo, non attirare la sua attenzione; ma il gesto “giusto” invece sì.

Mi confermo nell’idea che né educazione né apprendimento possono aver luogo efficacemente senza empatia, che non si attivano circuiti virtuosi se disgiunti da un vero legame affettivo tra l’adulto che insegna e il bambino, ragazzo o giovane, che apprende.

E neppure esistono competenze, che talvolta sono altamente specialistiche, magari ben forgiate dagli studi universitari, spesso affinate negli appositi corsi per diventare docenti, che trasformino un individuo in un bravo insegnante. Le sue modalità di trasmissione del sapere non reggeranno al tempo che passa se non avviene un reciproco riconoscimento tra le due parti.

Chi insegna comunica al proprio discepolo (alunno, allievo, studente), attraverso i diversi linguaggi di cui dispone l’essere umano e che, ben sappiamo, non sono solo verbali:

  • tu sei importante per me, oggi, in questa realtà;
  • ciò che ti aiuto ad apprendere è importante per la tua vita ma anche per la mia;
  • mi stanno a cuore sia la tua istruzione sia la tua personale realizzazione;
  • se tu non apprendi o apprendi male io mi sento sminuito perché senz’altro ho mancato, ho sbagliato, anche se non so vedere dove e come;
  • io insegnante so capire se in un determinato momento tu sei oppresso da altri bisogni a cui non so o non posso rispondere, ma siccome la scuola non esaurisce tutta la vita, posso essere solidale con te.

Questa e altre frasi io, giovane maestra, avrei potuto dire alle mie 28 bambine di scuola elementare dei primi anni ’70. Ma allora, per esprimere questi pensieri, era sorto quel gesto spontaneo di riannodare, per l’ennesima volta, un fiocco slacciato.

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