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Opinioni

PROTESTA, UN’ONDA CIECA

FRANCESCO SPATOLA - 09/12/2016

votoRenzi ha cercato d’attrezzarsi con impegno stravolgente, ma il miracolo non c’è stato: come da previsioni, al Referendum hanno vinto, anzi stravinto i NO; come dicevano le costanti tendenze dei sondaggi, e perfino i precedenti apparentemente controcorrente delle previsioni su Brexit e Trump. L’ultimo sondaggio pubblicabile de La7 del 18 novembre – poi era subentrato il divieto per la legge della “par condicio” – dava i NO al 39% e i SI al 34 col 27% circa d’indecisi: il che già significava la sconfitta finale del SI al 47% e la vittoria del NO al 53%, come avvenuto a Varese. Esito ribaltabile pescando tra indecisi e astensionismo? Niente affatto: al di là dell’errore statistico contava la tendenza, che aveva visto gli indecisi e le astensioni ridursi progressivamente dalle settimane precedenti, ma a tutto vantaggio del NO nei 2/3 dei casi, esploso con l’alta affluenza.

E la sconfessione dei sondaggi nei casi Brexit e Trump? Pure illusioni: in entrambi i casi i sondaggi avevano dato costantemente in vantaggio il “remain” in Europa per la Gran Bretagna e Hillary Clinton per la presidenza USA, ma con il “leave” e Trump rispettivamente in rimonta, in modo costante sino all’inaspettata vittoria finale. Non c’è stato quindi alcun vero ribaltamento, ma un continuo progredire nella corsa da parte di concorrenti sottovalutati perché “brutti, sporchi e cattivi”. I sondaggi, infatti, tendono sistematicamente a sottostimare le opinioni “di pancia” dell’elettorato, quelle che – soggettivamente – i gestori stessi dei sondaggi non condividerebbero perché troppo irrazionali ed estreme, e che gli intervistati si vergognano ad esprimere all’intervistatore perché “politicamente scorrette”, anti-sistema, di rabbia e protesta pura.

Così nel caso del Referendum le opinioni sottostimate dai sondaggi erano quelle a favore del NO, di chi non entra nel merito del quesito referendario perché non è culturalmente e intellettualmente in grado di farlo e/o emotivamente non vuole farlo. Certamente chi odia Renzi e il suo governo per chiara o confusa tendenza politica, ma anche prescindendo da Renzi: chi dicendo “no” sfoga la frustrazione per il lavoro che manca o è precario o sottopagato, il disagio e le brutture delle periferie degradate, la rabbia per il traffico soffocante o l’inquinamento o la pessima o cattiva manutenzione delle infrastrutture pubbliche, l’isolamento urbano o le tensioni familiari o i conflitti di vicinato, l’insoddisfazione per il cattivo funzionamento rispetto al costo dei servizi pubblici e privati, le evanescenti prospettive di futuro per i giovani inoccupati, la mediocrità dominante ed il merito disconosciuto, la scuola senz’anima né prestigio né investimenti propriamente culturali ma solo “refugium peccatorum”, i “social media” propalatori e moltiplicatori di sciocche carinerie e contestualmente di livore ed anonima ferocia al riparo da sguardi indiscreti, l’insicurezza nelle strade, l’immigrazione straniera con lo spauracchio del diverso e la spietata concorrenza nelle frange più deboli della forza lavoro … Tutto ciò che tormentava la “pancia” dell’elettorato ha trovato nel “no” un facile canale di espressione, complice la grancassa mediatica, tra telegiornali e talk show ad ogni ora, con cui da tempo si proclamava l’appuntamento referendario ed è stata favorita l’alta affluenza alle urne, anche questa ottusamente inaspettata.

Eppure, anche trascurando gli orientamenti filogovernativi o l’inevitabile sovraesposizione di esponenti del Governo a favore del SI nei telegiornali, non c’è stata occasione di dibattito televisivo in cui gli esponenti del SI non abbiano stracciato i rivali del NO. Come non c’era alcuna considerazione razionale che potesse portare a votare NO, se minimamente si approfondivano gli argomenti di presunta critica. La deriva autoritaria, l’eccesso di concentrazione di poteri? I poteri del premier non venivano toccati, restava la repubblica parlamentare, casomai sconcertava l’inverecondia di Berlusconi e del CentroDestra nel muovere la critica quando nel 2006 avevano fatto approvare un modello para-presidenzialistico col premier in grado di sciogliere le Camere, giustamente bocciato del referendum popolare di allora.

Con la Costituzione non si mangia, la riforma era un falso problema? Ma la costituzione riformata era la premessa necessaria per fare meglio gli interventi politici per lo sviluppo del paese, per assumere rapidamente le decisioni giuste, efficaci ed efficienti, quelle indispensabili per “mangiare”, per risolvere quei problemi che tormentano gli italiani.

Non c’era bisogno di eliminare il Senato paritario per velocizzare le leggi, quando s’è voluto per il pareggio di bilancio in Costituzione sono bastati 3 mesi? Eccezione che confermava la regola, dovevamo augurarci il ritorno dello spread a 600 punti e che l’Italia rischiasse il default per avere leggi veloci? La gran parte delle leggi di iniziativa governativa si traducono da decenni in decreti-leggi e fiducie, che coartano e mortificano il Parlamento, ma che si rendono indispensabili per i tempi altrimenti lunghissimi delle ordinarie leggi di iniziativa parlamentare, si pensi ai 2,5 anni dell’utilissima legge sul riciclo alimentare della varesina Maria Chiara Gadda. E la parte di residua competenza paritaria del nuovo Senato regionale si riduceva al 5% delle materie attuali, mentre su tutto il resto la possibilità di richiamo delle leggi della Camera avrebbe fatto perdere al massimo 40 giorni. Mentre sulle lungaggini della Camera dei Deputati sarebbe potuto intervenire il Governo con il nuovo percorso delle “leggi a data certa”, da concludersi entro 70 giorni.

Il “combinato disposto”? Il PD aveva già approvato l’indirizzo a modificare l’Italicum, facendo scomparire il premio di lista ed il ballottaggio. La perdita di sovranità popolare perché i senatori sarebbero stati a nomina indiretta? L’emendamento Finocchiaro aveva già inserito nella riforma il principio della volontà popolare come “conformità alle scelte espresse dagli elettori” ed il disegno di legge elettorale Chiti-Fornaro per i consigli regionali era già pronto, con due diverse schede per gli elettori, una per votare i consiglieri regionali-senatori e l’altra per i consiglieri semplici.

Il riaccentramento di competenze dalle Regioni allo Stato, che avrebbe umiliato le Regioni con la clausola di supremazia statale? Correggendo la spinta generosa ma nei fatti confusa dell’iper-regionalismo della riforma del CentroSinistra nel 2001, si operava una seria razionalizzazione che avrebbe sistematizzato in Costituzione la giurisprudenza della Corte Costituzionale nel risolvere i ricorrenti conflitti Stato-Regioni per la legislazione concorrente, equiparando gli standard sanitari sul territorio nazionale e finalmente dando voce in capitolo alle Regioni sulle scelte nazionali ed europee col nuovo Senato delle autonomie.

Troppo complicato ed illeggibile il nuovo testo dell’art.70 sul processo legislativo tra Camera e Senato? Ad onta degli esteti del diritto, se entrambe le camere hanno gli stessi poteri bastano poche parole per dirlo, se le competenze sono diversificate il testo normativo diventa inevitabilmente complesso, mai però come in Germania dove dall’art.76 in poi la loro costituzione impiega una decina di articoli per descriverlo, e i costituzionalisti che negavano di comprendere il nuovo art.70 ci hanno preso spocchiosamente in giro.

E il dopolavoro senatoriale per consiglieri e sindaci senatori? Già adesso rappresentanti regionali e dei comuni vanno a Roma per trattare gli affari che interessano i loro territori, e un Senato che avrebbe trattato solo il 5% della legislazione attuale può ben riunirsi poche volte al mese, tenuto conto che proprio il Bundesrat tedesco ha solo un giorno mensile di riunione. E se ai 2-3 giorni settimanali di impegno attuale i consiglieri regionali ne avessero aggiunto qualcuno in più, si sarebbero meglio meritati le loro copiose indennità.

Solo 50 milioni/anno anziché 500, i risparmi della riforma? Anzitutto riguardavano solo gli “stipendi” dei senatori e andavano triplicati, considerando i fondi per i gruppi parlamentari e le commissioni e soprattutto le riduzioni di personale della macchina senatoriale col ruolo unico dei dipendenti, oltre ad aggiungere 320 milioni per l’abolizione delle Province e 20 per il CNEL. Ma il vero risparmio – senza prezzo – sarebbe stata la velocizzazione del processo legislativo e la maggiore tempestività ed efficacia delle decisioni da prendere.

E la partecipazione popolare impedita dal triplicare a 150.000 le firme necessarie per le leggi di iniziativa popolare? Ma con le attuali 50.000 sono sempre state messe nel cassette, la Riforma introduceva l’obbligo di trattazione e di voto, facendole incidere davvero. E c’era il nuovo referendum propositivo e di indirizzo, e su quelli abrogativi se le firme salivano a 800.000 il quorum si abbassava drasticamente, praticamente dimezzato rispetto ad oggi.

E si poteva continuare, ma senza riuscire a convincere se non l’elite ristretta che si è interessata ed è entrata nel merito. La gran parte ha ragionato di pancia, con un voto di protesta cieca al limite della rivolta, la stessa riottosa testardaggine del mulo che rifiuta di affrontare il nuovo sconosciuto sentiero ed recalcitra rabbioso per il fieno insufficiente. In democrazia il popolo ha sempre ragione, ovviamente, anche in veste di mulo; ma sarebbe poco rispettoso verso la democrazia ed il popolo stesso doversi adeguare per forza alle idee sbagliate della maggioranza, rinunciare ad essere minoranza virtuosa per puro conformismo.

Migliore reazione alla sconfitta della Riforma è continuare ad impegnarsi per rimuoverne le cause, per superare il disagio d’una crisi economica, sociale e culturale acutizzata ormai da un decennio, ridotta nei 1000 giorni di Renzi ma non certo sconfitta. Senza confondere l’attesa giusta di una leadership risolutrice con la pretesa miracolistica dell’ennesimo “uomo della Provvidenza”: Renzi non pretendeva d’essere l’uomo solo al comando, ma – nonostante i misurati successi – aveva alzato a tal punto l’asticella delle aspettative popolari da venir poi travolto dall’irrazionale delusione per i miracoli mancati, specie dove come al Sud – vedi l’altissima quota di NO nelle regioni meridionali – l’aspettativa miracolistica è l’altra faccia della pulsione assistenzialistica, trasmutata in rabbia a miracolo mancato. Il vero miracolo sarebbe ora il prevalere popolare della razionalità paziente e tenace che sola può risollevarci.

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