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Economia

VECCHI PARADOSSI E NUOVO LAVORO

GIANFRANCO FABI - 18/02/2012

Se un’azienda di mille dipendenti vuole chiudere un reparto perché è più conveniente acquistare dei componenti in Cina piuttosto che produrli in proprio può licenziare cento dipendenti semplicemente applicando la legge 223 del 1991 avvisando il sindacato e accettando di mettere in atto le procedure di mobilità. Ma se un’azienda di trenta dipendenti vuole licenziarne due per lo stesso motivo non può perché i lavoratori possono chiedere il reintegro con l’applicazione del famoso art. 18 dello Statuto dei lavoratori.

E’ questo uno dei paradossi dell’attuale legislazione sul lavoro, così come un paradosso è il fatto che da anni si discute sull’articolo 18 come se fosse una discriminante tra il bene e il male, tra la libertà e l’oppressione, tra la civiltà e la barbarie. E invece il vero problema è che il mercato del lavoro in Italia è largamente inefficiente e sostanzialmente incapace di assicurare le basi per una crescita sociale ed economica.

L’Italia ha ormai un tasso di disoccupazione vicino al 10%, ma ha soprattutto uno dei tassi di disoccupazione giovanile, che comprende i cittadini tra i 18 e i 24 anni senza lavoro o inattivi perché sfiduciati dalla crisi, più alti d’Europa dato che tocca il 38,7%. In testa alla classifica regionale c’è la Campania (51,1%), seguita dalla Basilicata, al 48,3% e dal Lazio, con il 42,5%. Ma ancora più drammatico è il fatto che il 20% dei giovani si collocano in quella dimensione che viene chiamata Neet (Not in Education, Employment or Training), cioè che non sono a scuola, non hanno lavoro e non stanno seguendo corsi di formazione.

Inoltre l’Italia ha uno dei più bassi tassi di occupazione femminile e la più alta età media in cui un giovane entra nel mondo del lavoro.

Di fronte a questi elementi una riforma del mercato del lavoro appare non solo opportuna, ma anche urgente, una riforma tuttavia che si dimostri capace di affrontare con realismo e modernità il tema dell’occupazione.

Il primo elemento da superare è allora il vecchio concetto di classe per cui esisterebbero interessi contrapposti tra il datore di lavoro e il lavoratore dipendente, quelli che un tempo si chiamavano il padrone e l’operaio. Il valore del lavoro è innanzitutto un elemento centrale dell’impresa che ha nei suoi collaboratori uno dei suoi più importanti elementi di forza.

Il secondo elemento è che il posto di lavoro lo si può e lo si deve difendere soprattutto con la professionalità e il merito, prima che con barriere giuridiche e normative. Le regole sono importanti e necessarie, ma devono essere regole in grado di valorizzare le competenze e insieme di difendere contro le discriminazioni.

In questa prospettiva l’art. 18 è un falso problema. Non si tratta infatti di cancellarlo, si tratta di superarlo, di attuare una legislazione che tenga conto delle necessità dei giovani, degli occupati nelle piccole imprese, dei lavoratori precari. Partendo dal fatto che i posti di lavoro si creano se le imprese sono competitive, se il sistema economico è dinamico, se esistono reti di sicurezza sociale che fanno in modo che il cambiare posto di lavoro sia un’opportunità e non un dramma.

Il compito del Governo Monti in questa prospettiva non appare facile e l’obiettivo di varare la riforma entro marzo è sicuramente ambizioso. Ma giocano a suo favore alcuni elementi importanti. In primo luogo la volontà di superare le ideologie senza fare forza sulle divisioni del sindacato. In secondo luogo la coscienza condivisa a livello politico sul fatto che sia indifendibile la situazione attuale che non giova né alle imprese, né ai dipendenti. E infine la necessità di completare un percorso di riforme a tappe forzate che possa ridare all’Italia quella credibilità che è indispensabile per continuare sul cammino della crescita e insieme della solidarietà europea.

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