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Attualità

BANDIERONE SUL COMPUTER

FLAVIO VANETTI - 27/04/2017

juveL’ultima esternazione della mia juventinità – qualcosa di sui generis e nemmeno maniacale, perché in quanto giornalista degli sport “vari” il calcio mi sta sostanzialmente sull’anima: anzi, lo chiuderei proprio… – è avvenuta alcuni giorni fa a Monza nell’appartamento di Sandro Mazzola. Sono andato dal “Baffo” a consegnargli una copia del libro sugli Ossola, scritto assieme a Franco Giannantoni e a Franco Ossola junior, figlio del caduto di Superga.

Dopo i convenevoli, mi ha offerto il caffè. “Però il mio caffè è nerazzurro…” ha aggiunto con fare grave. E io: “Peccato, tifo Juve”. Lo sguardo di Sandrino s’è accigliato, non ho capito bene se in virtù della “bestemmia” o del fatto che abbia osato propinargliela così, a brutto muso e senza un minimo di diplomazia. La questione – che rischiava di concludersi o con la defenestrazione dal sesto piano o con la consegna al maggiordomo affinché mi riaccompagnasse in portineria – s’è ricomposta, oltre ad avergli sottolineato la passione per il mito del Grande Toro nel quale giocò pure suo padre e la simpatia per il Torello di oggi (l’ho detto che sono uno juventino particolare…), grazie a un mio amarcord.

Eh sì, io sono stato interista. Anni 60. Ero bambino quando giocava l’Inter-rribile di Helenio Herrera, di lui, Sandro Mazzola, di Suarez, Domenghini, Picchi, Jair e via “campionando”. La prima volta che la vidi dal vivo, a Masnago, ero incerto se tifare per il Varese o per quel manipolo di fuoriclasse. Forse era anche semplice tifare nerazzurro, in quei giorni: era un’Inter che vinceva e che dava gioie. E che quando perdeva, ti lasciava scornato. Ricordo come se fosse oggi una serata della Coppa dei Campioni (quella che adesso dobbiamo chiamare per forza di cose Champions League) a Madrid. Avevo una febbre porca ed ero confinato a letto. Ma per quanto provato, volli vedere la partita con uno dei primi televisori piccoli e dotati di antenne, quelle che dovevi sempre muovere perché la sintonia andava spesso al diavolo. Bene, vinse il Real, gol di Gento e Amancio. Io ero depresso, ma mia madre, che si sarebbe divertita a sfottermi in situazione analoga durante la per noi varesini tremenda finale di basket Mobilgirgi-Maccabi del 1977 a Belgrado (lei, bastian contraria, faceva apposta a tifare per gli israeliani), non perse l’occasione per declinare la simpatia per i madridisti. Se avessi avuto le forze, l’avrei linciata: questo per dire quanto ero preso dall’Inter.

Ma la fede crollò il giorno in cui Ivanoe Fraizzoli non volle acquistare Pietro Anastasi (mio idolo) e lo lasciò andare alla Juventus. Da quel momento ho visto bianconero, trovando consenso in papà (ben più “gobbo” di me) e, comunque, compiacendomi con moderazione e per la verità senza eccessivi trasporti di fronte ai successi della Signora. Oggi la Juve per me è, prima di tutto, un salvagente. È uno scudo difensivo in un ambiente – quello della redazione sportiva del Corriere della Sera – che pullula di interisti della razza più becera e integralista. Per essere io stavolta a sfottere, essendo peraltro aiutato dai grandi flop nerazzurri dell’era Moratti jr. e dintorni (giusto nel periodo di Mourinho, che era riuscito ad ottenere carta bianca, il vero segreto del triplete, sono dovuto rimanere in apnea), ho deciso di addobbare l’angolo di lavoro con stendardi e gadgets bianconeri.

Aronne Anghileri, mio “maestro” (sotto tanti aspetti) alla Gazzetta dello Sport, mi aveva insegnato a coprire sempre, a fine giornata, la macchina per scrivere: “È come il fucile per il soldato”, diceva. Oggi vale per il computer, per cui ecco il bandierone della Juve che prima di andarmene cala su pc e tastiera, così protetti dalla polvere. Poi ci sono la riproduzione della targa automobilistica con la scritta “io sono bianconero”, l’immancabile gagliardetto e, nell’armadio, la replica della maglietta di Del Piero, da vestire quando si disputano i tornei redazionali di calcio a molla (quel gioco carinissimo degli anni 60 nel quale i giocatori erano azionati da una molla alla base della loro figurina). Ovviamente la guerra agli interisti contempla anche gli elogi di Moggi, le conferme sull’opportunità di un rigore sempre e comunque (meglio se al 90′ e in situazione di parità), l’abolizione della regola del fuorigioco per i giocatori juventini, l’assoluta normalità che le partite proseguano “finché Juve non vinca” (peraltro gli interisti hanno appena sperimentato che funziona pure per il Milan…).

D’altra parte devo anche mettere in conto le dure ritorsioni. Si va dalle minacce fisiche agli insulti, ai lazzi su “Polifemo” Marotta (ben sapendo che è a sua volta di Varese), alle azioni punitive. Il maxi-drappo del suddetto bandierone un paio di volte è stato acciuffato dal capo (alto 203 centimetri, per 150 chili di peso), che si è slacciato i pantaloni e se l’è infilato in zona mutande, restituendolo con grassa risata una volta espletata la sudicia pratica. E, udite, udite, un bel giorno è pure sparito. Rapito, sequestrato. Mai più rivisto. Le indagini per acciuffare il reprobo sono ancora in corso (i sospetti convergono anche sul collega Alessandro Bocci, fiorentino e logicamente tifoso della “Viola”), ma intanto il bandierone è stato sostituito. Anzi, quello nuovo (un po’ diverso dall’altro), pare addirittura più fortunato: hai visto mai, toccando i santissimi, che sia l’anno del triplete bianconero?

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