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Storia

IL “GENERALE” RAPITO

MANIGLIO BOTTI - 01/12/2017

quassaScrive Piero Chiara in uno dei suoi racconti che, sul finire degli anni Venti del Novecento, era talvolta possibile vedere passeggiare, dopo il suo collocamento a riposo, il generale Luigi Cadorna sul lungolago di Pallanza, la cittadina di cui era originario. Camminando piano e misurando i passi insieme con il suo cane Dalmasso. Ogni tanto alzava il binocolo che teneva al collo e scrutava il lago, come se si trovasse ancora sull’Isonzo e vi immaginasse di scorgere dall’altra parte reparti nemici pronti all’azione. Invece cercava con lo strumento il porto di Laveno, verso cui mezzo secolo prima – più o meno –, il 30 agosto 1859, proprio da Pallanza ci si era mossi per attaccare il forte sul lago tenuto dagli austriaci. E pensava, indirizzando lo sguardo più avanti, verso Leggiuno e Reno e – infine – Ispra, quasi nell’ultimo bacino di lago, alla tenuta di campagna della Quassa dov’era solito trascorrere alcuni periodi della sua fanciullezza, anni di certo più lieti benché quella parte fosse ancora sotto il giogo austro-ungarico.

Del “generalissimo” Cadorna si è soliti parlare e scrivere a cicli, specie in questi periodo tardo-autunnali, quando per lo più ricorrono gli anniversari degli eventi che caratterizzarono nel male e nel bene la prima guerra mondiale. Quest’anno è il centenario della disfatta di Caporetto, che tuttavia portò l’anno seguente – il 1918 – all’inusitata resistenza dei nostri fanti e degli alpini sul Piave, alle battaglie del Grappa e infine a Vittorio Veneto e al crollo delle armate degli Imperi centrali.

La storia militare di Luigi Cadorna, dunque, si giocò soprattutto un secolo fa, alla sua destituzione nella prima decade di novembre del ’17 – che poi vera destituzione non fu com’è tipico dei comportamenti italiani in guerra e in pace, tranne casi eccezionali – e alla sua sostituzione con il napoletano Armando Diaz. Quindi se ne parla più spesso per criticarlo e per enumerarne i difetti, anche gravi, invece di giudicarne l’operato di uomo e di soldato. Addirittura, stavolta, secondo un inveterato costume nostrano, sposando diavolo e acqua santa, s’è voluto anche commisurare l’operato del generale Luigi Cadorna dopo Caporetto, abbarbicatosi alla poltrona – che poi poltrona non era – di comandante in capo dell’Esercito italiano, a quella del commissario tecnico della Nazionale di calcio Giampiero Ventura, ignominiosamente battuta dalla Svezia e inopinatamente esclusa dalla disputa dei campionati mondiale del 2018 in Russia. E ciò prendendo lo spunto dal fatto che, almeno per qualche giorno, Ventura aveva fatto resistenza a dimettersi.

Ma per Cadorna, uomo tutto d’un pezzo, non era stato così. Esonerato dalla guida generale delle armate italiane, che aveva tenuto con piglio quasi dittatoriale, del tutto indifferente anche alle mene delle pressioni politiche, e sostituito da Diaz, Luigi Cadorna era stato nominato Rappresentante militare dinanzi al comando degli alleati; cosa che però non lo inorgoglì di certo, anzi, essendo una carica soltanto onorifica; né bastò successivamente il recuperò che nei suoi confronti fecero il fascismo e il Re, nominandolo maresciallo d’Italia e donandogli il Collare dell’Annunziata. A riposo.

Di tutto si può dire di Cadorna tranne che fosse uno sciocco. Non era vanesio ma era smisuratamente orgoglioso, benché fosse capace di dissimulare anche questo sentimento. Si racconta che durante una cena in una villa di Padova, seduto accanto al Duca d’Aosta e al suo successore Diaz, ormai di fatto tolto di mezzo dagli alti comandi operativi, seppe incantare i commensali con il suo fare intelligente e pacato e con una lezione impareggiabile sullo scultore del Quattrocento Desiderio da Settignano. Cadorna era un militare tutto d’un pezzo e anche un uomo molto colto. Fuori sereno dentro un tumulto.

Chissà se, passeggiando sul lungolago di Pallanza, Luigi Cadorna rimuginasse ancora tra sé e sé su tali problemi e tali eventi, una decina di anni dopo. È più possibile che, trovandosi davanti al “suo” lago gli venisse invece alla mente un fatto di quando, all’età di sei anni, alla Quassa di Ispra fu rapito, e poi rilasciato, da un personaggio le cui tracce si sono poi perse nel corso degli anni e della storia. Un fatto misterioso e grottesco che pure si penserebbe uscito dalla penna dello scrittore Piero Chiara, uno dei principali raccontatori di vicende del Lago Maggiore.

 L’episodio è noto ai biografi del generale – ne parla ampiamente Gianni Rocca nella sua interessante biografia pubblicata da Mondadori una trentina di anni fa – e conosciuto dai cultori di storia locale, quale per esempio il medico e psichiatra Giuseppe Armocida, che ne scrisse per la rivista dei Verbanisti curata dal libraio Alberti di Intra. Ma forse non è noto alla stragrande maggioranza dei lettori, anche varesini.

Era la tarda mattinata dell’11 novembre del 1856 – Cadorna era nato a Pallanza il 4 settembre del ’50 – quando, bimbo, fu avvicinato nelle vicinanze di casa da un certo Mosè Boringhera e invitato a seguirlo con la scusa di avere in regalo un leprotto. Ma non si trattava di regali, a dimostrazione che a più di un secolo e mezzo di distanza tali fatti avvengono quasi con diuturna regolarità. E non sempre finiscono nel migliore dei modi.

Qualche ora dopo il Boringhera mandava a richiedere al papà del piccolo, Raffaele Cadorna, una certa somma di riscatto. Da ciò tuttavia non fu per nulla intimorita la mamma Clementina dei conti Zoppi, nobildonna di origine alessandrine, una sorta “madre coraggio”, la quale mise sulle piste del Boringhera la gendarmeria di Angera e si lanciò ella stessa nelle ricerche. Il rapitore con il piccolo vagarono l’intero pomeriggio per i sentieri, mangiando castagne e dissetandosi alle fonti. A sera tarda il Boringhera affidò il bambino a dei contadini, che poté così riabbracciare i suoi, e riparò in Svizzera.

Le sorti successive del Boringhera non sono chiare. Sembra che, catturato, venne condannato a una pena mite. In seguito fece anche parte – come ufficiale – della spedizione garibaldina dei Mille. Il papà di Luigi, che era ministro della guerra, venutolo a sapere, ne ordinò l’immediata destituzione. Poi sparì come nel nulla. Si disse che fosse emigrato in America, che poi fosse tornato venisse accoltellato nella sua casa isprese e creduto morto…

Il ricordo di quella vicenda segnò in ogni modo Luigi Cadorna. Gianni Rocca, bella sua biografia riferisce di una lettera che il “generalissimo” inviò alla moglie nel luglio del 1916, passando per la tenuta della Quassa: “Ebbi di quella visita piacere e dispiacere. Mi sembrava vedere l’ombra della povera mamma errare per quei boschi durante il mio rapimento…”.

Una ventina di anni fa la tenuta della Quassa – dove si annota ancora oggi una lapide dedicata alla famiglia Cadorna – e il relativo edificio furono acquisiti da una società di Milano che ne fece, in parte, una sala di esposizione di antiquariato di qualità. E oggi è sede di meeting, di feste e di matrimoni. A quattro passi dal Lago Maggiore.

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