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Società

COME ERAVAMO NEGLI ANNI ‘60

MANIGLIO BOTTI - 17/03/2012

Mary Quant inaugura la sua prima boutique a Londra

I capelli si allungavano, le gonne si accorciavano. È trascorso mezzo secolo (ed è già materia di qualche celebrazione) da un’epoca felice qual era quella degli inizi degli anni Sessanta, quando dall’Inghilterra – portati da quattro ragazzi di Liverpool e da Mary Quant, ideatrice della minigonna – arrivarono segnali di cambiamento, soprattutto nel mondo giovanile della musica e della moda.

E com’era allora Varese, la nostra piccola città… Non era molto dissimile, si racconta, da quella di prima della guerra, un paesotto rustico e un po’ diffidente, identificato nel provocatorio giudizio che ne aveva dato Gianni Rodari: città di droghieri e di esercenti freddi e interessati; ma anche una città dove sopravvivevano, in centro, molti caffè e vecchie librerie: doveva ancora venire l’invasione della miriade di negozi di lingerie e di agenzie di istituti bancari.

Diverso il paesaggio: molte di meno le auto (si dovrebbe dividere l’attuale mole di traffico per dieci o per quindici); più piccole e strette le strade: in via Sacco, per esempio, insieme con la vecchia e vera casa del medico – Luigi Sacco, l’Edoardo Jenner italiano – che le dava il nome, sopravvivevano l’istituto magistrale Manzoni (poi scuola media Silvio Pellico), che sopravanzava sulla carreggiata, accorciando il passo della porta a Nordovest della città e, nell’angolo, i bagni pubblici, all’ingresso dei Giardini.

Si sbaglierà, ma era diversa anche la gente. Più serena e – con buona pace di Rodari – meno incattivita. A meno che il ricordo non si confonda nella nebbia di una trascorsa gioventù. La passeggiata – la vasca – sotto i portici del Corso non era una frettolosa occasione di acquisto o di affari, ma una pausa di riflessione. Una gioiosa “immagine di riposo” nella quale potevi anche incontrare il romanziere di successo, il calciatore, il cantante, l’attore famoso che – quasi inosservato – vi faceva visita.          

 ***

Motivi per ritracciare gli scomparsi percorsi del passato, e magari celebrarli, vengono spesso riproposti. Come quello avviato di recente tra gli ex giovani studenti allo scopo di rievocare i luoghi delle loro bigiate. Per quanto mi riguarda, da studente pessimo quale fui a buon bigiatore, appunto, il passaggio è breve. Cominciai alle medie, frequentate a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta alla Dante di via 25 Aprile: scuola severa, allora, con il latino da subito, cui si accedeva mediante un duro esame di ammissione che ero riuscito a superare non so come. Le mie mete preferite di “studente assente” erano i Giardini e il Centrale, un cinemino collocato in fondo ai portici di corso Roma, oggi corso Moro, e all’inizio di via Bagaini: due film in una volta cento lire, avrebbe cantato Giorgio Gaber; in realtà, mi pare di ricordare, il biglietto costava centosettanta lire e i generi dei due film, di solito, erano per lo più il western e il mitologico (Ursus, Ercole, Achille e compagnia).

 Il Centrale aveva la prerogativa di aprire i battenti alle nove della mattina e di andare avanti fino alla mezzanotte inoltrata. Era anche un fumoir, perché allora nei cinema era consentito darsi ai piaceri del tabacco. Si possono facilmente immaginare le condizioni di un ragazzino che vi stava rintanato per tre o quattro ore fumandosi una decina di nazionali esportazione senza filtro. Si correvano anche dei rischi. Il primo era che verso le dieci qualche commando di insegnanti vi passava a dare un’occhiata, facendo – letteralmente – retate tipo Gestapo. Il secondo era che vi si potevano fare spiacevoli incontri. Ma bastava cacciare un urlaccio e le luci si accendevano all’istante.

Anche i Giardini non erano esenti da pericoli. Un pomeriggio – per qualche tempo alla Dante furono costretti a dare modo alle numerose classi di baby boomer di occupare a turno il mattino e il pomeriggio la stessa aula – mi capitò quasi di giocare a rimpiattino con la mia prof di matematica, che vi transitava, nascondendomi dietro i tassi o nei cespugli, per non farmi beccare e trasportare a scuola tirato per un orecchio.

Andò avanti così fino al liceo e fino a quando, compiuti i diciott’anni, potei disporre di una Cinquecento nuova fiammante color sabbia. La cosa mi permetteva un’autonomia operativa e solitaria che il bigiatore professionista conosce bene. Perché la prima regola è quella di non bazzicare luoghi affollati e di non farsi vedere su mezzi pubblici di trasporto, pena il contatto ravvicinato con qualche conoscente.

Fu in questo periodo di felice condizione automobilistica che, per esempio, perfezionai la mia presenza nella saletta del Borducan al Sacro Monte, il locale promotore della “ricerca” fra gli antichi bigiatori. Intanto il nome, pieno di esotismo. Il piacere di trovarsi in un sito tranquillo e silenzioso con veduta sul versante nordorientale del Campo dei Fiori e non sulla tristissima via del liceo, che porta alla clinica della Quiete.

Ma anche il Borducan aveva qualche difetto. Di bigiatori infatti nel locale ce n’erano una schiera. Sempre di più. Vi salivano prendendo il pullman C, infrangendo ogni regola di sicurezza. Qualche volta, nella saletta del Borducan, si faceva fatica anche a trovare posto. Di preferenza il locale era bazzicato da studenti di scuole tecniche o scientifiche. Arrivai a questa conclusione il giorno in cui, adocchiata una morettina sola e in un angolo, scoprii che non stava leggendo un giallo Mondadori o una rivista di canzonette, ma un manuale di chimica, la materia a me più indigesta.

Trasferii così le mie bigiate verso altri e più distanti lidi: Laveno, Portovaltravaglia e – soprattutto – il lago di Como. Da Varese, piazza Monte Grappa, a Como, piazza Cavour, ci si impiegava trenta, trentacinque minuti. Altri tempi, davvero. Una volta, in una luminosa giornata di primavera, prolungando la giornata di assenza, verso l’una salii su un battello della Navigazione: Maslianico, Moltrasio, Laglio, Brienno… Il vedere studenti veri che abbrancati il fascio di libri e le cartelle scendevano agli imbarcaderi avviandosi verso casa dava una soddisfazione sottile. E nessun rimorso.

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