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Attualità

CLANDESTINI DELLA LINGUA

LUISA NEGRI - 08/02/2019

manzoSi sa che Manzoni, il Don Lisander che suscitò col suo “romanzetto” le preoccupazioni del governo asburgico, per portare a definitiva stesura l’opera poi da tutti conosciuta come I Promessi Sposi, dalla cosiddetta edizione ventisettana alla quarantana, cioè dal 1825-27 al 1840, impiegò diversi anni. Ma, di anni, se ne contano ancora di più, se si calcola anche l’edizione del 1842.

Perché il figlio di Giulia Beccaria non era certo uno che i dubbi se li lasciava mancare: e, prima di essere certo di quanto metteva in pagina, provava e riprovava, cioè scriveva e correggeva e si documentava. Andò persino di persona, come gli era piaciuto far sapere ai suoi venticinque lettori, a sciacquare i panni in Arno.

A opera finita ebbe però la consacrazione meritata in quanto la critica avrebbe visto nei Promessi Sposi il primo romanzo moderno e in lui l’autore che aveva gettato le basi dell’unità linguistica in Italia.

Il Manzoni avrebbe così legato per sempre opera e nome alla lingua del suo amato Paese: travagliato certo dalla presenza dello straniero ma alla cui libertà aveva contribuito proprio con il suo romanzo, oltre che non vari scritti che gli costeranno anche un volontario, ma necessario, esilio in terra piemontese. L’esilio fu per fortuna dorato, come aveva realisticamente sottolineato la seconda compagna di vita, Teresa, da lui sposata dopo la vedovanza dalla prima moglie, Enrichetta Blondel, madre della numerosa figliolanza dello scrittore.

Proprietaria della dimora in quel di Lesa (oggi sede museale manzoniana) Teresa, a sua volta vedova del conte Stampa, fieramente raccontava di quanto piacesse ad Alessandro risiedere sulla sponda piemontese del Verbano, tanto che quando si trovava colà “aveva il miele in bocca”. Forse perché a non troppa distanza, a villa Bolongaro, in quel di Stresa, era anche la residenza di Rosmini. I due si incontravano di frequente, spesso assieme a intellettuali del tempo, riflettendo, con gusto e preoccupazione, su filosofia e politica e sui tempi che correvano.

Passano gli anni. E succede che la nostra lingua capiti nella gentile bocca non più di Manzoni e della sua seconda moglie, ma di una simpatica, giovane onorevole, un’altra Teresa – non Manzoni ma Manzo – esponente politico dell’oggi nostro democraticissimo Paese: dove austriaci e teutonici, deposte le baionette, tagliati i baffi di capecchio, arrivano per fortuna “a bocca aperta”, da turisti svagati e invaghiti della nostra cucina e dei nostri panorami.

Giovane e sprovveduta non solo nella foga oratoria, ma soprattutto nella conoscenza della lingua, nell’enfatico intervento la Manzo infila quattro strafalcioni in due righe di discorso. “Vediamo un pupularsi di opinionisti”… “…di politici che incassano i vitalizi a sbaffo”, “…toglieremo i giovani da quei divani che erano stati messi lì a parcheggio”, “…penseremo anche ai giovani che sono dovuti andare all’estero per trovare maggior ricchezza e dettaglio…”.

Prosegue intrepida tra i risolini, quasi peggiori degli strafalcioni (ma che ci sarà mai da ridere, con quello che ci costano certi scherzetti di lingua?), dei compagni di banco e di partito, e insiste con altri termini per lei troppo ostici.

La sua performance linguistica prosegue il giorno seguente via Facebook. Cercando di scusarsi inceppa sempre nella lingua, ma questa volta si propone in latino: “ergo cogito sum” – scrive – non conoscendo l’esatta sequenza e il senso delle parole di Cartesio, ma anche dimenticandosi di fare un controllino (ché sarebbe stato possibile… profittando dell’uso del web, tanto raccomandato dai compagni grillini).

Passando da una lingua all’altra, è infine la terribile lingua di Littizzetto, la Lucianina di Fazio, a non lasciarsi sfuggire in Tv di rivelare a tutti, accantonati gli scivoloni manziani, un altro cammeo dei pentastellati: questa volta non suo, ma di un collega di partito. “Sarò breve e circonciso” promette ai colleghi parlamentari Daniele Tripiedi. Conciso, precisa il malcapitato presidente forzista di turno alla Camera, “quella è un’altra cosa”.

Li sapevamo deboli in geografia, per via del Brennero, adesso sappiamo tutti (anche a questo servono i media) di certe défaillances linguistiche dei nostri.

Ma intellettuali e giornalisti proclivi alle costellazioni, come i sofisticati Scanzi, Travaglio e compagnia bella, e il più nostrano Paragone – che, se prima s’aggiravano per fabbriche teatri e palcoscenici adesso dovranno dare ripetizioni di italiano a domicilio – prima di farsene paladini, e consigliare lettori ed elettori ‘malpensanti’ “che li lasciassero almeno provare”, li avevano mai sentiti parlare?

E perché non suggerire a qualcuno di istruirli un po’ prima, anziché mandarli – mandarci in faccia al mondo che ci deride urbi et orbi – così allo sbaraglio?

D’accordo che eravamo già abituati ai frizzi di Razzi…

E Ernesto Galli Della Loggia, che aveva candidamente ammesso la sua simpatia e la sua scelta politica per questi freschi e baldi rappresentanti del Movimento, cosa ci racconterà mai adesso?

Forse neppure lui si aspettava che sarebbero scivolati dalla lingua di Manzoni alla lingua di Manzo. Rischiando di offrire la palla ai colleghi salviniani di governo, subito pronti a cercare di alzare l’asticella del consenso.

Per Salvini potrebbe esserci l’opportunità – chissà se la coglierà – di sfottere i colleghi, alleati sì ma in perenne rivalità quotidiana, con una nuova felpa, stampata di fresco: “Io speriamo che me la cavo”.

Ce lo auguriamo tutti. Che l’Italia se la cavi.

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