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Il Viaggio

PAVIA LA ROSSA

GIOIA GENTILE - 31/05/2019

San Pietro in Ciel d’oro

San Pietro in Ciel d’oro

Rossa. È così che ricordavo Pavia. L’avevo visitata molti anni fa e tutto ciò che mi era rimasto nella memoria era il suo colore, il color mattone delle chiese e delle torri. Ci tornerò prima o poi – mi dicevo – e, come spesso succede per i luoghi vicini, rimandavo sempre, preferendo mete più esotiche.

Ci sono tornata, finalmente, grazie ad una visita organizzata dalla sezione di Varese di Italia Nostra. E ho ritrovato l’atmosfera che ricordavo, i colori caldi del romanico lombardo, le strade acciottolate, dove, non fosse per le automobili, il tempo sembra essersi fermato.

Ma vi ho trovato anche molto altro, bellezze di cui non avevo memoria. Non ricordavo, ad esempio, l’interno delle chiese: i presbiteri sopraelevati di San Michele Maggiore e di San Teodoro, delimitati da balaustre di finissima fattura, la penombra silenziosa delle cripte, il fascino dei capitelli scolpiti nella pietra, degli affreschi che ancora affiorano su colonne di mattoni o di un crocifisso longobardo rivestito d’oro e argento. Varcando la soglia di San Pietro in Ciel d’oro  mi sembrava di entrare in una novella del Boccaccio: da un momento all’altro avrei potuto veder comparire, tra una folla di personaggi riccamente vestiti, messer Torello, che riesce ad evitare che sua moglie convoli a seconde nozze. Ma, soprattutto, mi affascinava l’idea di potermi avvicinare al sepolcro di Sant’Agostino, filosofo a me caro per la sua ricerca del senso della vita.

Fuori dal centro storico, ho riscoperto la luminosa ariosità di una città d’acqua, i percorsi lungo il fiume nelle cui acque si specchiano le case colorate del Borgo Ticino; e il ponte coperto, che, nonostante sia stato ricostruito nel secolo scorso dopo i bombardamenti della Seconda guerra mondiale, ha ancora il fascino dell’antica struttura trecentesca.

E non avevo mai visto la Certosa, uno dei tanti gioielli italiani che bisognerebbe visitare almeno una volta nella vita. Non saprei dire che cosa mi ha emozionato di più: se la grandiosità  e la ricchezza marmorea della facciata o la fuga degli archi nei chiostri o la semplicità spartana delle antiche celle dei Certosini. O il museo, nella cui gipsoteca ho potuto ammirare i dettagli dei bassorilievi che decorano la facciata e che è difficile mettere a fuoco nella loro collocazione naturale.

Pavia mi è sembrata una città dove passato e presente convivono e dialogano, senza conflitti: puoi sederti ai tavolini di un bar in Piazza del Broletto  e captare le conversazioni vivaci degli studenti universitari e poi, in breve tempo, raggiungere San Pietro in Ciel d’oro e sentirvi riecheggiare le parole del Petrarca nella lettera al Boccaccio:  “Avresti visto (…) la città di Ticino (da qualche tempo la chiamano Pavia, quasi «ammirabile», come vogliono i grammatici)… Avresti visto la tomba di Agostino; e dove Severino (Boezio,ndr) trovò sede idonea a trascorrere la vecchiaia in esilio, e la sua vita ebbe fine; e dove ora in urne gemelle essi riposano sotto lo stesso tetto insieme con il re Liutprando che dalla Sardegna in questa città aveva trasportato proprio il corpo di Agostino. Pietoso e devoto consorzio di uomini illustri”.

O leggere, su una lapide della facciata di quella chiesa, alcuni dei versi con cui Dante ricorda Severino Boezio nel X del Paradiso: …”l’anima santa che ‘l mondo fallace/ fa manifesto a chi di lei ben ode./ Lo corpo ond’ella fu cacciata giace/ giuso in Cieldauro; ed essa da martiro/ e da essilio venne a questa pace”

Una città dove, ogni tanto, bisognerebbe ritornare.

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