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Libri

L’UOMO DELLE GAULOISES

LINDA TERZIROLI - 26/07/2019

gauloisesE’ uscito il libro “Un pacchetto di Gauloises, una biografia di Guido Morselli” di Linda Terziroli (Editore Castelvecchi). Ecco il primo capitolo intitolato “Il suicidio”.

«Non vuoi fermarti a cena?» gli domanda la figlia della sua amica, sulle scale di casa. «No, sono stanco, vado a casa». Le ultime parole di Guido Morselli hanno un’urgenza spietata e un significato quasi feroce, attraverso la lente d’ingrandimento del tempo. Si allontana da una cena, la festa di compleanno della sua amica, ci rinuncia, davvero risoluto ad andarsene. Sono appena tornati da Macugnaga, Guido e Maria Bruna Bassi alloggiano sempre nello stesso alberghetto, l’Hotel Milano, lui ama prenotare sempre la stessa stanza, la numero 26, di cui apprezza il mobilio antico. Nell’albergo lo ricordano stravagante, metteva la frutta a maturare sul davanzale della finestra. All’Hotel Milano, Guido, già abbastanza maturo, aveva fatto una corte serrata a una bellissima fan- ciulla varesina – che sarebbe diventata poi insegnante di Lettere – e ave- va anche chiesto al padre di lei il permesso di frequentarla. No, non era Lugano, non era il Beau Rivage di Un dramma borghese e la ragazza non era Teresa. Anche questa volta Guido vorrebbe fermarsi in montagna più a lungo, ma la sua amica vuole raggiungere la famiglia a Varese. Pri- ma di ripartire, Guido non accarezza le pareti della stanza, a Macugnaga, chiamata da lui «Montagnana», come fa di solito, è molto triste. Nel- l’inverno precedente ha ormai traslocato a Varese, abbandonando per sempre la Casina Rosa, il suo buen retiro di Gavirate, divenuta ormai bersaglio di rumorosi motocrossisti che si divertono a infastidirlo. Inoltre, aleggia l’incubo della Pedemontana che prima o poi avrebbe squarciato la sua adorata montagna, che si innalzava verso il Campo dei Fiori. Presto o tardi, comunque, avrebbero dovuto fare ritorno a casa, da Macugnaga. Ciascuno a casa propria.

Scuro in volto, il passo svelto, l’elegante magrezza che i pantaloni larghi, solo vagamente, sottolineano. Attraversa il cancello, lo chiude dietro di sé. Cammina in salita, verso casa, lungo il vialetto, che curva a sinistra. Imbocca la via Limido. Scompare dalla vista. La figlia della sua amica richiude, dietro sé, la porta di casa, si ricongiunge alla madre e al- le sorelle per i preparativi della cena. Parole e silenzio. Cinquanta metri credo, approssimativamente, ottanta passi forse, lo sguardo fiero e tragico, ormai volto a quell’incontro a lungo meditato. Sul cancello di casa sua lega un biglietto con la scritta: «Non spaventatevi». Oltre il labirinto di pensieri, un gesto d’incoscienza, di follia. Guido era troppo intelligente per farlo. «Siccome era uno spirito semplice, nell’entrare si ripeté una frase che aveva inteso la sera al cinema: ecco, l’istante in cui tutto si decide è venuto» come aveva scritto ne Il comunista.

Apre la porta della “Tanina” – come chiamava la dépendance di via Goldoni 14 –, poi, ancora più solo con se stesso, si prende alcune ore per preparare il commiato. Una parca cena: mette a bollire la sua tazza di latte, mangia una fetta di formaggio. Il frigo era quasi vuoto. Poi accomoda una poltrona da giardino, di vimini, a dondolo, lo schienale rivolto alla vasca da bagno. La pistola Browning, 7 e 65, silenziosa e piccola protagonista di una vita, fedele compagna dei suoi romanzi, la to- glie dal viluppo della coperta militare in cui, da sempre, è avvolta, poi la estrae dalla custodia di cuoio. Uno sguardo al diario, e poi scrive sul calendario un appunto, le cose che avrebbe fatto i giorni successivi, usando l’abituale passato prossimo, depistando i suoi lettori postumi. Predispone il pagamento delle bollette del gas e della luce in scadenza. Fuma la sua pipa, la lascia sul tavolo. È ora di farla finita. Posa un bigliettino sul tergicristallo dell’auto parcheggiata sulla ghiaia. Lascia Dissipatio H.G., il suo ultimo romanzo, l’ennesimo rifiuto editoriale, dentro la cassetta della posta. Le due copie del romanzo erano state ri- spedite al mittente. Riprende in mano il testamento, lo lascia in bella vista sul tavolo. Niente deve lasciare adito all’ipotesi di un incidente o di un omicidio. Sul tavolo lascia una lettera per la Questura di Varese: «Non ho rancori verso nessuno». Poi si prepara all’incontro con la «ra- gazza dall’occhio nero», con puntualità e massima concentrazione. È arrivato quel momento. Abbandonare la vita definitivamente in modo elegante, nessun particolare deve suscitare imbarazzo. Arriva qualche suono di automobile dalla strada, la città si sta per addormentare, an- che i cani smettono, di colpo, di abbaiare. È arrivato il momento di premere quel grilletto, la pistola – ha ricontrollato ancora una volta – è già carica.

È ben vestito, indossa un paio di scarpe lucide. Ma, sotto i pantaloni, ha il pigiama. I lacci di spago, secondo l’abitudine. Chiude, dietro sé, la porta del bagno. Si avvolge il capo in un asciugamano pulito. Non vuole spargimento di sangue. Si siede sulla poltrona a dondolo da giardino, quella di vimini. Ormai non ha più nessuno: non è più nessuno. «Tutto è ugualmente inutile» come negli appunti del 6 novembre 1959.

Ho lavorato senza mai un risultato; ho oziato, la mia vita si è svolta nella identica maniera. Ho pregato, non ho ottenuto nulla; ho bestemmiato, non ho ottenuto nulla. Sono stato egoista sino a dimenti- carmi dell’esistenza degli altri; nulla è cambiato in me né intorno a me. Ho fatto qualche poco di bene, non sono stato compensato; ho fatto del male, non sono stato punito. – Tutto è ugualmente inutile.

Spara. Un colpo di pistola alla tempia, nel cieco buio della notte. L’orologio sul suo polso segna l’1:30. Nessuno, nel quartiere di Bosto, si ricorda di avere udito uno sparo, quella maledetta notte fra il 31 luglio e il 1 agosto del 1973 in cui Morselli sparì.

«Fare attenzione perché l’arma è carica» recitava la stesura testamentaria in cui Guido Morselli destinava la Browning a suo fratello Mario, insieme alla penna stilografica d’oro, di cui si serviva “ordinariamente”. Non ho mai trovato il coraggio di domandare a Mario di quella pistola: alcune domande sono destinate a rimanere senza risposta, nella nostra vita.

Il custode, sentito il rumore sordo e inequivocabile del colpo di rivoltella, accorre. Nella notte cupa, dopo pochi istanti, il ritrovamento. La donna di servizio lo chiama (erano abituati alle stranezze del signor Morselli), ma all’inizio nessuno risponde. Continua a chiamarlo, apre e chiude le porte nella casa, lo chiama a voce alta. I suoi passi risuonano nella piccola dépendance. Improvvisamente lo trova, nel bagno della Tanina, la piccola casina davanti all’orto, sulla sedia da giardino. Morto, ma ancora caldo. E lancia un grido, terribile, lo spavento di chi trova un suicida è un’angoscia indelebile, al di là del rimorso, che non ti abbandona più. Il corpo non risponde, tiepido, sta poco per volta diventando freddo.

L’ora della morte è precisata dall’“Atto di Morte”, redatto il «tre agosto millenovecentosettantatré» e conservato presso il Comune di Varese: «Alle ore tre e minuti zero del dì Primo del mese di agosto», e se il suo orologio da polso era fermo alle ore 1:30, secondo quanto ha sostenuto la fedele aiutante Maria Farè, non possiamo sapere perché, resta un mistero1. La signora Maria Farè diceva che la pistola Guido se la teneva sotto il cuscino: c’erano stati alcuni presunti tentativi precedenti, in momenti di depressione, per esempio nel ’53, nel ’54. La signora Farè ricorda: «Il signor Guido diceva spesso “Un giorno o l’altro la faccio fuori”». E poi un particolare: «Aveva il vizio di mettere i soldi nei libri. Alla sua morte dei ragazzi hanno trovato dollari nei libri e li hanno rubati». Il gesto volontario non può essere equivocato. E nemmeno nascosto. E la verità prima o poi viene a galla.

Mario viene a sapere della morte di suo fratello a casa sua, da una delle sue figlie, sulla porta d’ingresso. Si precipita all’aeroporto di Burlington, fa imbarcare le valigie. Un baule colmo di libri antichi, rari, preziosissimi. L’aereo fa scalo a New York. Compagnia aerea: Delta. Mario ritorna un momento a casa, il viaggio sarà angosciosamente lungo. Ma l’aereo lo perde, per un soffio. E quello stesso aereo precipita, inabissandosi tra i banchi delle nebbie fitte che nascondono la baia di Boston. Il destino. Sarebbe morto a poche ore da suo fratello. E invece la vita lo riacciuffa, con quegli intrighi che si chiamano coincidenze. Così il volo parte, con lui a bordo, dal vicino Canada e arriva in Italia.

Una moneta luccica nel palmo della mano di Mario: è il suo dollaro d’oro canadese che mi mostra, un pomeriggio, in America. Ripenso al fatto che il volo dal Canada è stato salvifico. Accarezzo la moneta d’oro puro nel palmo della mia mano, faccio scorrere l’indice sulla foglia d’acero in rilievo. La stringo delicatamente nel pugno. Mario morirà molti anni dopo, nel freddo verde del Vermont, all’ombra delle Green Mountains e dei monti Adirondack. Ma questa è un’altra storia, un’altra vita.

La morte aveva bussato in via Limido.

A Gavirate, nella calda notte estiva, squilla il telefono grigio, presago di tenebra, vengono avvisati i Bosatelli, gli storici custodi. La signora Sara, moglie di Giulio Bosatelli, un paio d’ore dopo è a Varese, abbraccia quel corpo ancora caldo, bacia quel volto, lo inumidisce di lacrime.

Le parole lasciate dappertutto, in ogni libro, in ogni cassetto, in ogni appunto di carta, su ogni libro, le sue parole sono ovunque. Ma lui non scriverà più. Quello che è venuto dopo è il solito copione che conosco a memoria, passo dopo passo. Il nastro bianco e rosso del sequestro, i poliziotti e un paio di giornalisti con le borse sotto gli occhi, i vicini di casa che sbirciano tra le rose rampicanti, gettando uno sguardo oltre il muro di cinta. Un po’ di gente che nessuno vuole, tantomeno lui: era un uomo riservato. Mentre serpeggiano ipotesi, chiacchiere inutili.

Il telefono suona ininterrottamente, nella maestosa Villa Morselli di via Limido, la frenetica ricerca dei particolari, il pettegolezzo che si mescola al dolore, quello autentico, e al rimorso, eterno, e poi si fa strada la questione editoriale. Il telefono continua a squillare, il suono ripetuto, monotono, insistente.

Ma nessuno risponde.

Quella notte (mi dico) tornando dalla grotta: la ragazza dall’occhio nero, la Browning 7,65, l’avevo vicina, quando mi sono coricato. E so che ho premuto il grilletto. È un’arma che non s’incanta. L’ho puntata bene? Me la sono puntata alla bocca. E la mattina c’era chiazza di sangue, sul cuscino. Ma i morti non vedono se stessi, il loro stesso sangue che hanno versato. Chi lo garantisce che i morti non si vedano? Ho premuto il grilletto. Ma la sicura della Browning l’avevo tolta? Non mi sembra. Il sangue sul cuscino si spiega in un altro modo, avevo sbattuto la testa contro la roccia. Pretesti. Per fingermi sopravvissuto. Pretendevo di essere un’eccezione e invece, la notte del 2 giugno è stata l’ultima anche per me. Il resto, il ‘dopo’, niente altro che una frode della solipsistica. (Dissipatio H.G.)

«Sul fondo dell’agendina due ritagli di giornale: il primo, datato 25 maggio, riporta la notizia dell’elezione di Claude Lévi-Strauss all’Accademia di Francia; il secondo, datato 16 aprile, riporta i brani di un’intervista al regista Giuseppe Patroni Griffi, che sta girando il film Identikit: “Ho immerso tutto il film, e cioè la storia di questa autodistruzione di una creatura umana nella follia della distruzione che pervade il mondo in cui viviamo, un mondo ossessionato dal sesso, dall’erotismo inteso come mercificazione e non più come liberazione. Un mondo dilaniato dal sospetto, dall’intolleranza, dalla violenza, che sembra diventata addirittura un’esigenza. Sì che Lisa non fa che compiere un gesto individuale già latente per altro nel mondo che la circonda”» si legge nella Cronologia, ai Romanzi Adelphi, primo volume.

Sul guanciale del letto non c’è l’impronta della sua testa. Guido Morselli non si era disteso a letto con lei, la sua ragazza dall’occhio nero. E non aveva premuto la sua bocca sulla sua, a lungo.

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