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Società

LAICI NELLA CHIESA

MANIGLIO BOTTI - 01/11/2019

comunitaÈ facile ma nello stesso tempo impegnativo, per qualificarne importanza e significato, dare una definizione di comunità pastorali, cioè di quelle istituzioni che da una dozzina d’anni a questa parte – ma forse di più – improntano il territorio nell’ambito della Chiesa e dei suoi fedeli, chiamati a rieleggere, proprio in questi giorni, i loro consigli rappresentativi all’interno di esse.

 Con semplicità e praticità si può affermare che le comunità pastorali altro non sono che aggregazioni di parrocchie. Anche la città di Varese si è data questa rappresentazione. Chi scrive, per esempio, appartiene alla comunità pastorale di Santa Maria Madre Immacolata, che raccoglie le parrocchie di un’ampia fascia nord-ovest-sud della città: dalla montagna al lago, da Velate, via via passando per Avigno, Masnago (parrocchia di riferimento dove di norma risiede il sacerdote responsabile), Bobbiate, Lissago, Calcinate del Pesce con l’aggiunta – da un paio d’anni – anche delle parrocchie di Cartabbia e di Capolago e con il coinvolgimento di quindicimila fedeli almeno.

È invece più impegnativo e complicato entrare nel cuore delle comunità pastorali, interpretandone il ruolo e la sostanza, che non è solo organizzativa e logistica, ma presuppone una nuova visuale di coinvolgimento – s’è appena detto – dei fedeli. Si tratta di un loro avvicinamento alla vita comunitaria più partecipativo e diretto sia nello svolgimento di alcune pratiche della liturgia della messa (le letture, la distribuzione delle particelle consacrate), come già avviene da tempo, e anche nelle pratiche di vita religiosa comunitaria, per esempio la benedizione delle famiglie, che da noi si tiene in occasione dell’Avvento, e pure nell’accompagnamento dei feretri e nell’ “assistenza” nei funerali.

Sono, queste ultime, pratiche più impegnative e più difficili da essere accettate perché vanno a scalfire tradizioni secolari; e, nella pratica religiosa, si sa quanto le tradizioni siano importanti.

Perché ancora – e qui sta probabilmente il punto nevralgico della questione – le cosiddette comunità pastorali non sono sorte dalla base come esigenza di cambiamento e di partecipazione nel percorso e nell’accettazione della fede, ma come risoluzione presa dall’alto – cioè dalle curie diocesane – a seguito della mancanza di vocazioni e quindi di sacerdoti da inviare sul campo.

 Il legame diretto “signor curato-parrocchia”, com’era fino a mezzo secolo fa, più o meno, si è ormai perso. Chiunque appartenga alle generazioni non verdissime ricorderà i momenti in cui il vescovo consacrava i nuovi sacerdoti: le loro foto e i loro nomi venivano pubblicati negli ingressi delle chiese. Cento, anche centocinquanta giovani venivano introdotti alla vita sacerdotale. I seminari erano folti, le richieste e le adesioni pure.

Non è più così. Le ragioni sono diverse. Ma è una crisi che da tempo travolge la Chiesa nella sua interezza, e non solo in Italia. Riguarda i sacerdoti, certo, e anche i fedeli. I luoghi religiosi si svuotano, le pratiche anche di vita mutano rapidamente, i battesimi, i matrimoni sono sempre di meno, aumentano invece le convivenze e i divorzi. Si apre sul mondo una nuova società.

 Le comunità pastorali si inseriscono su questi nuovi modelli di vita. Oggi come ripiego, forse, ma anche come volontà di un nuovo e più responsabile percorso sulla strada della fede cristiana, nel riconoscersi nella parola dei Vangeli.

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