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Editoriale

LA QUESTIONE MORALE

CAMILLO MASSIMO FIORI - 13/04/2012

Vent’anni dopo il crollo del sistema dei partiti democratici sotto il peso della “questione morale” i nuovi soggetti politici che ne avevano raccolto la facile eredità sono anch’essi sotto la sferza delle inchieste giudiziarie e inseguiti dall’indignazione popolare. Ricompare la nemesi come metafora della giustizia, garante di misura e d’equilibrio, che punisce la tracotanza e la strumentalizzazione della politica attraverso le alterne vicende della storia.

Se l’eredità lasciata dai vecchi partiti è stata una democrazia imperfetta ma autentica, il lascito dei movimenti personalistici che li hanno sostituiti è costituito dalla demagogia che è un pessimo surrogato della prima.

In democrazia la sovranità popolare si realizza in una feconda dialettica dei cittadini con le istituzioni, attraverso i partiti, dove le aspirazioni e le critiche, i malumori e le speranze, ideali e interessi possono trovare un punto di equilibrio e diventare proposte costruttive espresse dai cittadini attivi e mai sottomessi al volere dei capi.

La demagogia recepisce invece l’istintualità popolare e la strumentalizza per ottenere un consenso partigiano senza preoccuparsi di costruire il bene di tutti; essa dà voce al sentimento della gente ma in modo autodistruttivo e nichilista.

Bossi lascia la scena non soltanto per lo scandalo dei soldi sottratti al finanziamento pubblico ma per il fallimento della sua politica che non ha realizzato neppure una delle tante strampalate riforme che aveva annunciato: il problema della Lega non è la sostituzione del leader ma i vent’anni di promesse non mantenute.

Anche i partiti possono indulgere alla demagogia ma sicuramente essa diventa un fatto generalizzato e costitutivo quando essi si trasformano in qualcosa di diverso; se la fiducia nei partiti è oggi ridotta a non più del dieci per cento dell’elettorato è perché i partiti sono stati sostituiti da soggetti politici che, in spregio ad ogni regola, fanno capo ad un leader che non “interpreta” i sentimenti popolari per indirizzarli verso un progetto collettivo, ma li recepisce e li esalta per un fine privato di autoaffermazione.

Al di là delle differenze, qualitative e quantitative, questi “partitoidi” hanno un elemento comune: senza i rispettivi leader sono niente, non poggiano su alcuna base culturale e programmatica. “Se cade Bossi – ha detto il deputato del cappio Luca Orsenigo – la favola è finita”.

Era da mettere in conto lo scandalo dei fondi pubblici utilizzati dalla Lega in modo totalmente opaco e per fini diversi: in un soggetto politico inteso come famiglia patriarcale allargata le regole stanno fuori della porta perché prevale la volontà, magari soltanto presunta, del “patriarca”. Ma ci sono anche i rapporti ambigui con improbabili “mediatori” e sospetti investimenti a Cipro e in Tanzania.

Un velo è caduto: l’ipocrisia che ha consentito a dei soggetti totalmente inaffidabili di conquistare il potere in nome di una ostentata onestà.

I partiti tradizionali “rubavano per necessità”, perché il finanziamento pubblico copriva solo la metà delle spese; i nuovi soggetti “rubano per avidità”; hanno fatto del finanziamento pubblico una fonte di lucro.

La Corte dei conti ha certificato che dal 1993 a oggi il finanziamento pubblico è lievitato del seicento per cento e i rimborsi sono il triplo delle spese sostenute.

Così la “democrazia dei partiti” si è trasformata in “democrazia del pubblico” dove contano le emozioni e il nostro destino è affidato alla fragilità del comune sentire anziché all’ancoraggio di principi certi e di valori solidi.

Dopo un ventennio di berlusconismo la distinzione fondamentale tra pubblico e privato è sfumata, non ha più confini netti e visibili, il bene comune resta distaccato dall’etica e lievita nella estemporaneità delle impressioni soggettive. I partiti sono diventati delle macchine organizzative per collocare non solo nelle istituzioni ma in un vasto sottobosco pubblico le proprie oligarchie, privatizzando le funzioni collettive a proprio vantaggio e realizzando una specie di feudalismo postmoderno.

La Lega non scomparirà perché l’habitat dove è nata e cresciuta non è cambiato e Bossi è stato per vent’anni interprete dell’inconscio di una parte consistente del Bel Paese: retrivo, xenofobo, qualunquista e familista, sventolando, per eterogenesi dei fini, quella bandiera che voleva destinare a uso igienico ma con su scritto il moto coniato da Leo Longanesi: “Ho famiglia”.

Quella che stiamo vivendo è una fase delicata perché, dopo il galantuomo Monti, la demagogia ha aperto una strada percorribile da qualsiasi avventuriero, se non ci sarà una forte reazione morale del nostro popolo.

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