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Attualità

TACETE

ROBERTO CECCHI - 04/12/2020

Alcuni tra gli esperti Covid

Alcuni tra gli esperti Covid

Ricordo che era la tarda primavera del 2003, quando il mio capo di gabinetto disse a me e ad altri le testuali parole “adesso che ci siete tutti, discutete quanto vi pare. Ma ora chiudo la porta e la riapro quando avrete trovato una risposta condivisa”. Eravamo nel salone di rappresentanza del ministro dei beni culturali. Quel salone al primo piano del Collegio Romano, un palazzone della fine del Cinquecento, in pieno centro di Roma, voluto da Ignazio di Loyola – il fondatore della Compagnia di Gesù -, dove risuonarono anche le parole di Galileo Galilei.

Ebbene, su che cosa c’era da mettersi d’accordo? E chi erano quelle persone? Le persone erano tutti docenti universitari di restauro dei monumenti, provenienti da un po’ da tutt’Italia, alcuni dell’Università di Roma, altri da quella di Perugia, altri ancora da Firenze, Milano e Napoli. Io ero lì in qualità di direttore generale del ministero. Bisognava scrivere un articolo della nuova legge del Codice dei Beni Culturali e c’era bisogno di trovare il più ampio consenso possibile su uno dei temi più controversi della disciplina, quello che stabilisce le modalità con cui si opera per la salvaguardia del nostro patrimonio culturale. Alla fine, se ne uscì. Un po’ ammaccati ma se ne uscì e l’esito di quella discussione è l’attuale articolo 29 del Codice. È un ricordo personale per dire che anche oggi, forse, bisognerebbe fare qualcosa del genere con questa pandemia.

Non dico che quella sia stata la maniera più ortodossa di interrogare una comunità scientifica. Ma non si può neanche assistere ancora alle piroette di quest’altra comunità, quella che sulla pandemia da Covid sta dicendo tutto e il contrario di tutto. Dopo quel che abbiam passato, da marzo scorso in poi, a inizio estate qualcuno ha avuto il coraggio di dirci che il virus se n’era andato. Che era morto e sepolto e dunque “bomba, liberi tutti”, potevamo andare tranquillamente in spiaggia a prendere il sole. S’è visto. Altri, del medesimo ambiente scientifico, dicevano esattamente il contrario: tenere le distanze e portare le mascherine. Adesso, che c’è uno spiraglio di vita con questo benedetto vaccino/i, un altro esperto se ne esce dicendo che lui, stando così le cose, non si farebbe mai vaccinare, visto e considerato che nessuno si è degnato di fargli vedere i dati. Non finisce di parlare che i suoi stessi colleghi insorgono e lo censurano. La telenovela continua, come se ci avessero preso gusto a creare sconcerto, e così un’altra esperta che ogni giorno ci delizia da Oltreoceano, come se non bastasse, ci dice papale papale che “chi si vaccina non si ammala, ma può infettarsi e infettare gli altri se non indossa la mascherina”. Siamo punto e daccapo come al Monopoli. E invece no. Va tutto bene, dice il collega dell’università di Milano. Ma non si capisce se sia esattamente proprio tutto bene.

È uno Sturm und Drang che ci stordisce mentre ci ripetono fino alla nausea che la cura della pandemia sta, soprattutto, nei comportamenti individuali. Cioè, nel dar credito alle raccomandazioni che ci vengono rivolte, proprio da quella stessa comunità scientifica che non trova il modo di esprimersi in maniera conveniente. Non dico unitaria, ma almeno conveniente sì. La stragrande maggioranza della popolazione – compreso chi scrive, ovviamente – non ha gli strumenti per capire le contorsioni che ci vengono proposte ogni giorno, in qualsiasi trasmissione televisiva e su qualsiasi pagina di giornale. È facile che lo sconcerto che producono si trasformi presto in sfiducia verso quella stessa comunità e contro le raccomandazioni che ci rivolge. Sta già succedendo. Quindi, bisogna che questi scienziati – se lo sono davvero – abbiano il buon senso di mettersi da parte. Abbiano l’umiltà di lavorare senza farsi né vedere né sentire. E che abbiano il buon gusto di ascoltare almeno il grido di dolore, quello vero, quello che viene dalla loro stessa comunità, formata anche dai loro giovani colleghi, buttati in prima linea come carne da macello, in uno dei tanti ospedali di questo Paese. Anche loro con gli occhi sbarrati di fronte al dolore “Se non avete pietà di voi stessi, almeno abbiate pietà dei vostri figli. E abbiate pietà di noi, io e i miei colleghi. Non credo che ci siano parole che possano spiegare realmente cosa significhi lavorare in terapia intensiva […] non so dove si trovino le parole per spiegare questo: non era previsto da nessun manuale di medicina cosa rispondere! E allora sarebbe il caso di tacere, tacere tutti. #abbiate pietà” (Non ho parole per spiegare come si vive dentro l’inferno, La Stampa, 21.11.2020). State zitti. TACETE.

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