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L'intervista

ÈNFANT PRODIGE

FELICE MAGNANI - 07/05/2021

continiIl ciclismo degli anni settanta/ottanta? Più sentimentale e meno razionalista, più artigianale e meno tecnologico, più focalizzato sull’estro e sulle potenzialità individuali. Tra i campioni che facevano battere il cuore dei tifosi c’era Silvano Contini, un giovane di Leggiuno, salito alla ribalta in virtù di una naturale vocazione al gesto atletico. Corridore tecnicamente molto dotato, era capace di farsi rispettare su tutti i percorsi, di sorprendere e di incantare, di dimostrare che, in fondo, la forza del ciclismo è soprattutto nella fantasia, in quella libertà che sai domare e distribuire con arguzia e intelligenza. Contini, di quel mondo, era l’énfant prodige, il ragazzo acqua e sapone capace con i suoi talenti di mettere in riga supercampioni come Bernard Hinault, Tommy Prim, Kuiper, Fons De Wolf, Roger De Vlaeminick e personaggi fortissimi come Saronni, Moser, Visentini, Baronchelli, capace di giocarsi la vittoria con la destrezza matematica di un ragioniere super attento e molto maturo per exploit di prestigio. Era l’epoca in cui non potevi contare sui “treni”, su chi ti tirava la corsa per oltre duecento chilometri, dovevi tirar fuori il carattere e sbrigartela da solo, dovevi dimostrare di essere tu il campione.

Era un ciclismo che viveva di talenti che bisognava dimostrare sul campo, che sapeva essere generoso se lo sapevi amare con l’entusiasmo e la stima dovuti, andando ben oltre le profezie dei maghi e quelle dei visionari. Silvano è stato un brillante interprete di quel ciclismo. Quando arrivi 43 volte primo, 15 volte secondo, 16 volte terzo, quando indossi per 14 giorni la maglia rosa e ti chiamano in nazionale azzurra per 5 volte, vuol dire che hai saputo mettere in pratica tutti quei talenti che madre natura ti ha regalato. Nella vita di un campione anche la fortuna vuole la sua parte, ci sono però aspetti che colpiscono subito e che fanno la differenza, come l’umiltà e l’autostima. Contini è stato se stesso sempre, non si è mai fatto prendere la mano. Che cosa colpiva di lui? La serietà, un valore sempre più difficile da incontrare. Si può essere seri sorridendo e amando la vita, si può essere seri giocando con l’ironia e con il sorriso, facendo sempre il proprio dovere per il gusto di farlo.

Silvano l’ho conosciuto così, con la sua riservatezza, con quell’aria da bravo marito e da bravo papà che rasserena e rassicura e che ti fa capire che la vittoria la devi conquistare ogni giorno cercando di essere te stesso in tutto quello che fai. In occasione della Liegi-Bastogne-Liegi dello scorso 25 aprile l’ho chiamato per fare due chiacchiere su quella corsa che lui, nel lontano 1982, aveva vinto, battendo in volata il fior fiore dei velocisti dell’epoca.

 

Silvano, indossare i colori della Bianchi ti ha galvanizzato?

Entrare a diciannove anni in questa mitica squadra e indossare la maglia che era stata di Fausto Coppi è stata la realizzazione di un sogno.

Veniamo alla Liegi-Bastogne-Liegi che hai vinto nel 1982.

La vittoria nella Liegi-Bastogne-Liegi la davano come impossibile per un italiano, io ho dimostrato che, contrariamente ai commenti che passavano allora, si poteva vincere.

Silvano, le classiche del nord che cosa hanno rispetto alle nostre?

Hanno delle caratteristiche diverse, ma le classiche, proprio per la loro natura e la loro storia, sono tutte difficilissime, non ce n’è una che possa essere considerata più facile dell’altra. Milano-Sanremo, Giro di Lombardia, Liegi-Bastogne-Liegi, Parigi-Roubaix, Amstel Gold Race, sono davvero uniche, tutte difficili da interpretare e da correre.

Com’è il percorso della Doyenne, la Decana?

Nella prima parte della corsa, fino a Bastogne, non ci sono salite impegnative, il vero problema è che c’è sempre molto vento laterale. Dopo Bastogne si entra nelle colline e cominciano le Cotes, muri che vanno affrontati nel modo giusto. Impegnativo è lo Stockeu, poi c’è il Redoute, lungo tre chilometri e con pendenze del 18 e 19 %, può quindi essere decisivo per la vittoria finale. La Doyenne è la più vecchia tra le corse monumento, è stata creata nel 1892.

Ti capita di ricordare quei momenti?

Sì, ma raramente. Qualche volta mi capita di vedere qualche foto che viene pubblicata sui social, qualche filmato, mi fa sicuramente piacere rivedere quei momenti che restano un bellissimo ricordo.

Ne hai mai parlato con i tuoi colleghi?

No, non ne abbiamo mai parlato, forse non c’era un gran feeling o forse non abbiamo mai avuto l’occasione di poterlo fare o forse eravamo troppo diversi per età, il ciclismo è molto cambiato, la storia scivola via in fretta e anche i modi di pensare mutano rapidamente.

Riguardo alla Liegi, chi secondo te ha più possibilità di vittoria?

Ci sono tanti corridori che la possono vincere, come Pogacar, Roglic e anche altri.

Cosa pensi di Davide Rebellin, ancora presente nel ciclismo nonostante l’età?

Probabilmente vuole dimostrare che a fronte di tutte le cattiverie che gli hanno fatto è ancora competitivo. Tanto di cappello per questa sua longeva determinazione.

Quando hai messo la ruota davanti a De Wolf, com’è stata la reazione del pubblico belga?

Incredula, forse non pensava che un giovanissimo italiano potesse battere i padroni di casa, De Wolf in particolare. In compenso il tifo degl’italiani presenti è stato bellissimo. Ho visto i nostri emigrati piangere di gioia, la mia vittoria è stata anche la loro.

Per il prossimo Giro d’Italia, chi vedi bene?

In questo momento non abbiamo grandi corridori per vincere grandi Giri, speriamo che il futuro possa riservare delle belle sorprese.

Perché i campioni scarseggiano?

Secondo il mio punto di vista dipende da una politica sbagliata a livello federale, non è stato valorizzato a dovere il settore giovanile, manca un vivaio, mancano quindi le basi del ciclismo.

Abbiamo diversi giovani che corrono in squadre straniere, cosa pensi di queste migrazioni?

Correndo nelle grandi squadre all’estero ti fai una bella esperienza. Il problema è che in Italia sono rimaste poche squadre e quelle poche non hanno così tanti mezzi finanziari per poter competere a livello internazionale.

Che cosa limita di fatto il ciclismo?

Adesso tutto passa attraverso il computer, il numero di pedalate, mai fuori soglia, è tutto calcolato per non andare mai oltre, mentre una volta, il ciclismo era bello perché andava allo sbaraglio, si inventava le corse uscendo dagli schemi, sorprendendo gli avversari, sfoderava la libertà di poter compiere grandi imprese, mettendo in campo tutte quelle doti e quei talenti che oggi diventano schiavi di un eccesso di tecnologia e di programmazione. Che cosa manca nel ciclismo? Lo spettacolo, l’attacco prima delle grandi salite, le grandi sfide, la gestione della propria libertà. Il ciclismo è bello anche perché scopre strada facendo i suoi talenti, le sue risorse, la sua voglia di affermazione. Devo dire però che i giovani talenti stranieri si fanno valere, hanno estro, sono capaci di fare la corsa uscendo da schemi preconfezionati. Se oggi il ciclismo entusiasma è anche per merito loro, per come sanno interpretare e vivere la corsa. Speriamo che anche l’Italia possa dare alla luce qualche campione in grado di dare spettacolo, di entusiasmare il grande popolo del ciclismo, che è sempre lì, in attesa.

E la tua falegnameria?

Sono sempre sul pezzo, va tutto bene, mi piace lavorare il legno, è un lavoro che faccio volentieri, per cui mi sento pienamente appagato.

Silvano, complimenti per come hai saputo impostare la tua vita ciclistica e soprattutto per come ti sei organizzato nel tuo lavoro, nella famiglia, complimenti davvero, tutto questo ti fa onore.

Il segreto di una buona riuscita sta tutto nella famiglia che hai saputo costruire, per questo mi reputo molto fortunato, mi sento capito e supportato e questo è il motore che mi consente di essere me stesso sempre, anche in tempi difficili come quelli che stiamo vivendo.

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