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Politica

LEGGE ELETTORALE, QUALE FUTURO

CAMILLO MASSIMO FIORI - 04/05/2012

Nell’attesa che il governo dei tecnici porti avanti il programma di lavoro concordato con l’Unione Europea, i partiti, a cominciare da quelli che lo sostengono, si sono impegnati tra le altre cose a realizzare una nuova legge elettorale per eliminare almeno due dei principali difetti dell’attuale: l’eccessivo premio di maggioranza attribuito alla coalizione vincente e la impossibilità per l’elettore di scegliere i candidati.

Purtroppo alle buone intenzione non corrisponde una reale volontà di fare. La legge elettorale deve realizzare due obiettivi che sono in naturale contrapposizione: il massimo di rappresentatività e la migliore governabilità.

In democrazia le posizioni culturali e politiche non possono essere ridotte a due; sono certamente più numerose e sopprimerne la manifestazione non giova allo sviluppo del Paese; il quale deve essere però governato con efficienza senza infinite mediazioni di una molteplicità di soggetti politici.

Al sistema proporzionale viene addebitata una eccessiva frammentazione che rende poco efficace la “governance” ma al maggioritario si imputa un eccessivo autoritarismo.

Nella pratica si sono poi verificati alcuni “effetti collaterali” che inficiano tale doppia tendenza: il sistema di partiti della prima Repubblica è stato certamente più fecondo di risultati che non quello che l’ha sostituito che, peraltro, non ha realizzato neppure la promessa di far scegliere agli elettori il tipo di governo: nel 1994 i cittadini scelsero Berlusconi e si trovarono ad essere governati da Dini; nel 1996 vinse Prodi ma fu sostituito dal Parlamento con D’Alema e con Amato. Infine il numero dei partiti, dai sette-otto che erano, si sono moltiplicati in misura esponenziale ma hanno perso molte delle loro caratteristiche peculiari: l’elaborazione dei programmi, la discussione, la formazione politica, la preparazione della classe dirigente; oggi sono quasi tutti dei comitati elettorali a sostegno di pochi “notabili”, non più degli organismi di partecipazione popolare.

Il bipolarismo fu importato in Italia per annullare la centralità democristiana nella illusione che, eliminata quella che fu la principale barriera contro il comunismo, la via sarebbe stata spianata per la vittoria del PCI, opportunamente ma acriticamente ribattezzato con un nuovo nome.

Le cose non andarono così e il bipolarismo permise un nuovo esperimento che altrimenti non avrebbe avuto luogo: il “berlusconismo”, come sistema di governo personalizzato e accentrato, che ha accentuato i guasti di una politica intesa come contrapposizione frontale.

Chi vuole l’unione “obbligata” delle sinistre o delle destre e rendere impossibile la presenza di una forza centrale, anche se non più egemone, punta sul bipolarismo e rifiuta il proporzionale; ma così non tiene conto di quella “frattura storica epocale” che tuttora persiste nel popolo italiano il quale ha sempre accettato le “avventure” di destra, mai quelle di sinistra. L’alleanza delle forze radicali di sinistra con il Partito Democratico (che vuole essere un soggetto nuovo e diverso ma non è ancora riuscito ad esserlo rispetto alle precedenti esperienze) può far vincere le elezioni ma a causa delle insanabili divergenze programmatiche impedisce la “governance”.

Meglio dunque il ritorno al proporzionalismo ma con alcune sostanziali modifiche: un moderato premio di maggioranza per il partito (non per la coalizione) più rappresentativo, la soglia di sbarramento con il “diritto di tribuna” e la sfiducia costruttiva. Più delicato è il problema delle “preferenze” che in un Paese controllato dalle mafie, dai gruppi di potere e dalle “lobby”, possono essere facilmente manipolate per eleggere una classe rappresentativa incline al trasformismo e arrendevole rispetto ai conflitti di interesse. Può essere esplorata l’ipotesi di piccoli collegi uninominali in modo da consentire la scelta diretta dei candidati senza rischiose interferenze degli interessi organizzati.

Il modello tedesco può offrire una traccia ma non è da imitare pedissequamente perché, oltre ad essere alquanto complesso, è solidamente imperniato sulle realtà locali, come i “lander”, che hanno una solidità e un senso di corresponsabilità molto maggiore delle analoghe realtà regionali italiane.

La riforma elettorale deve essere però accompagna dalla riforma dei partiti da attuarsi attraverso la legge con il loro riconoscimento giuridico in modo da stabilire regole democratiche certe per lo svolgimento delle loro funzioni. Se rimangono gli attuali “partitoidi” a sfondo personale non ne trarrà giovamento la democrazia ma soltanto l’oligarchia dei politici di professione.

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