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Politica

RAID ANTICRISI

ROBERTO CECCHI - 19/04/2024

iranAllora, sembrerebbe tutto finito, “Per noi la questione si chiude qui” fanno sapere gli iraniani, dopo la rappresaglia scatenata contro Israele, nella notte tra il tra il 13 e 14 aprile, durante la quale sono stati sparati 331 tra droni e missili (che sono partiti da tre stati, Iran, Iraq e Yemen), intercettati quasi tutti dal sistema di difesa israeliano. E quindi, fortunatamente non ci sono stati danni, se non il ferimento, purtroppo, di una bambina di pochi anni, colpita dalle schegge di un drone abbattuto e finita in ospedale.

Per il resto si è trattato di poca cosa. Molti commentatori lo hanno definito un attacco scenografico, a favore di telecamere, che ha illuminato drammaticamente la notte israeliana, suscitando tanta paura nella popolazione, ma senza conseguenze fisiche. Il sistema di difesa, l’Iron Dome (la cupola di ferro), un sistema missilistico mobile, ha funzionato alla perfezione. Col contributo fondamentale, però, dell’aviazione statunitense e di quella britannica (e, pare, anche francese).

Mentre quella stessa notte a Teheran è stato un tripudio. Con gente in macchina per le strade, bandiere al vento, urla da stadio, slogan, balli per rivendicare la vittoria. Che non c’è stata. Al massimo si è trattato di un pari e patta. Comunque, la vera novità di quest’attacco sta nel fatto che, per la prima volta, l’Iran si è impegnato direttamente contro Israele, in uno scontro frontale, a viso aperto, come non aveva mai fatto prima.

Qui e altrove, aveva sempre mandato avanti gruppi di ribelli e milizie, i suoi attori per procura, i cosiddetti “proxy actors”, a cui fornisce sostegno finanziario, militare, logistico. Finora aveva perseguito, così, il suo progetto di destabilizzazione regionale, senza farsi coinvolgere direttamente in operazioni militari. Ma lavorando con astuzia sul controllo di diversi gruppi terroristici come Hezbollah, milizie Houthi, gruppi paramilitari iracheni e quelli al fianco del regime di Bashar al-Assad nella guerra civile siriana.

Oltre ad Hamas, evidentemente. Fino a qualche giorno fa avevamo avuto il sospetto che fosse stato l’Iran ad armare la mano dei terroristi il 7 ottobre. Adesso, abbiamo la certezza che costoro sono stati proprio finanziati, mettendo a disposizione logistica e diverse centinaia di milioni di dollari, per organizzare l’attacco contro Israele. La stessa cosa avviene nel Mar Rosso, alimentando gli attacchi alle navi mercantili costrette ad attraversare lo Stretto di Hormuz. Perché tutta questa frenesia destabilizzante? Perché tutta questa tensione che rischia solo di portarci a qualche grosso guaio? La narrazione ufficiale dice che tutto questo accade per un desiderio dell’Iran di diventare egemone nello scenario regionale (l’ansia di arrivare a possedere il deterrente atomico ha questo significato) e annullare definitivamente lo stato di Israele, come si va ripetendo da decenni. Probabilmente, c’è del vero in questo, come dicono le dimostrazioni di piazza dell’altra sera a conclusione dell’attacco. Un tripudio popolare entusiasta di aver avuto il coraggio di attaccare il grande nemico.

In realtà, questi attacchi, questo protagonismo terroristico – diciamo così – mettono in luce la debolezza interna del regime teocratico. Appesantito da grandi difficoltà, a causa di una crisi economica che toglie il fiato, dovuta alle pesanti sanzioni economiche cui è sottoposto. E fiaccato da dimostrazioni popolari che mettono in discussione la natura stessa del regime, che ha perso legittimità soprattutto tra donne e giovani. Dunque, non bisogna cadere nella trappola del confronto competitivo costante, definitivo, del colpo su colpo. L’Iran agita lo spauracchio della guerra per mettere la sordina alle sue difficoltà interne.

E difatti, l’altra sera non ha affondato il colpo. Avrebbe potuto fare di più, di peggio, decuplicando il lancio di missili e questo avrebbe sicuramente messo in serie difficoltà il sistema di difesa israeliano, aprendo concretamente la strada alla guerra regionale. Invece, in questo modo, ha semplicemente voluto dare una dimostrazione di forza alla collettività internazionale, ma soprattutto ha cercato di parlare ai connazionali, rassicurandoli. D’altra parte, non è una novità, la guerra, da sempre, è lo strumento più stupido per risolvere i problemi interni. Dunque, la strada da perseguire non è la contrapposizione a tutti i costi, ma la ricerca di strumenti per l’isolamento politico del regime. Su questo è necessario concentrare tutti gli sforzi.

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