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Società

LA VARESE CHE NON C’È PIÙ

CAMILLO MASSIMO FIORI - 27/07/2012

Nello spazio di tre generazioni il mondo è completamente cambiato, non soltanto nell’aspetto fisico ma altresì nella mentalità, nelle abitudini, negli stili di vita delle persone.

Alla fine degli anni Quaranta Varese era ancora una cittadina compattamente raggruppata intorno

all’antico centro, alle castellanze, ai piccoli comuni uniti al capoluogo nella prima metà del secolo scorso. Densamente popolata e con molte fabbriche dentro i suoi confini la città aveva una vita molto intensa con le strade sgombre dagli autoveicoli ma piene di gente e di ambulanti che offrivano merci e servizi (come l’arrotino o lo stagnaio), i negozi affollati, i bar e le osterie aperti fino a notte. Gli abitanti, specialmente nella bella stagione, preferivano stare fuori di casa perché le abitazioni erano anguste e poco accoglienti, persino nel principale corso cittadino mancavano i bagni, il riscaldamento centralizzato e in fondo ai ballatoi a ringhiera erano collocate le latrine di uso comune.

Le strade e le piazze erano lo spazio preferito per i giochi dei ragazzi in quanto il traffico era costituito solo dagli sferraglianti tram bianchi, da carri trainati da robusti cavalli, dalle scarse autovetture, dalle corriere e bastavano pochi vigili urbani a regolarlo; i semafori non furono installati che negli anni cinquanta.

Solo nelle ore di punta, verso le otto del mattino e le cinque e trenta del pomeriggio, una fiumana di biciclette invadevano le strade principali per portare gli operai, riconoscibili dalla tute blu e dagli zoccoli ai piedi, nei numerosi stabilimenti.

Varese non era ancora dispersa nelle anonime periferie, era una città compatta non solo come nucleo urbano ma come comunità coesa intorno a principi e valori condivisi. Nascevano molti bambini ma il lutto per la morte di un concittadino era condivisa da tutta la popolazione che assisteva sulle strade al passaggio del corteo funebre mentre i negozi abbassano le saracinesche.

Quel mondo sarebbe sparito dopo pochi decenni ma allora il lavoro in fabbrica era il destino per la maggior parte degli adolescenti provenienti dalle famiglie operaie perché i loro modesti salari erano essenziali per l’economia familiare.

A quattordici anni la maggior parte dei ragazzi (ma anche una alta percentuale di ragazze) entrava in fabbrica come a vent’anni sarebbero partiti per la “Leva militare”. L’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro era spesso traumatico e quasi sempre coincideva con un radicale cambiamenti di mentalità che li portava ad abbandonare la religione e ad assumere nuove convinzioni morali.

Fu questo il motivo che spinse le ACLI ad organizzare la “Leva del lavoro” che consisteva in una serie di incontri che si sviluppavano nell’arco di più mesi tra i neo apprendisti e alcuni lavoratori anziani che li introducevano nel difficile e rischioso mondo del lavoro. L’esperienza si svolgeva in quasi tutte le località della Provincia e si concludeva in una grandiosa manifestazione al Sacro Monte alla quale non mancò mai di celebrare la Messa nella pineta il cardinale Montini, fino a quando restò a Milano. Su una media di ottomila apprendisti che entravano ogni anno in fabbrica, più della metà partecipava alla “Leva”.

Solo l’istituzione della scuola media unica avrebbe costituito un’occasione di promozione sociale ma in quegli anni i giovani operai che volevano proseguire gli studi dovevano frequentare i corsi serali; c’era un’unica scuola di questo tipo in Provincia, la mitica “Carnelli” di Gallarate.

Nella fabbrica fordista il lavoro era pesantissimo, ripetitivo, monotono ma le occasioni di impiego erano abbondanti, soprattutto dopo il “boom” economico degli anni cinquanta quando l’Italia divenne un Paese industrializzato al Nord, provocando una migrazione di proporzioni bibliche dal Sud. Anche Varese ne fu investita tant’è che i nuovi lavoratori provenienti dal meridione vennero ospitati in alloggi di fortuna nelle cascine intorno alle città e nei pochi dormitori allestiti dalle associazioni assistenziali.

Il “Piano Ina-Case” fortunatamente fornì i mezzi per la costruzione di interi quartieri di edilizia popolare che contribuirono ad ingrandire la nostra Varese ma anche a dividerla in quartieri ghetto e in periferie anonime. Fu quella l’occasione per un sensibile progresso materiale; anche le famiglie operaie poterono acquisire un po’ di agiatezza con l’acquisto delle lavatrici, dei televisori, dei frigoriferi; con la disponibilità di abitazioni più funzionali e, più tardi, con il possesso della motoretta o dell’utilitaria.

Dieci anni dopo la fine della guerra Varese era diventata irriconoscibile: le ville liberty e i giardini che sorgevano numerosi anche nel centro storico vennero eliminati insieme ad alcuni parchi storici per far posto a pretenziosi condomini, la città si allargò a macchia d’olio e vide i rioni saldarsi in una anonima periferia, il barocco Teatro Sociale fu abbattuto e la rete tranviaria che collegava la città anche con i laghi venne smantellata insieme alle funicolari.

Il progresso tecnico e il benessere economico hanno cambiato la società ma l’hanno anche trasformata nel profondo.

Questo cambiamento è stato descritto con efficacia da Pier Paolo Pasolini nella metafora della “scomparsa delle lucciole”, gli indicatori della salubrità dell’ambiente che l’inquinamento dell’ambiente aveva fatto sparire dalle campagne, divenute silenziose. Qualcosa di inusitato era accaduto e non riguardava soltanto il paesaggio, la natura, l’ambiente, ma il cuore degli uomini. Un nuovo tipo di civiltà ha scalzato i valori certi (religione, patria, famiglia, ordine, risparmio, moralità) che appartenevano all’universo agricolo e paleocapitalista ormai tramontato.

In tale vuoto di valori emergeva il nuovo potere consumistico che “deformando la coscienza del popolo, ne favorisce una radicale mutazione antropologica”.

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