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Cultura

IL SOGNO DEL BEAT ITALIANO

MANIGLIO BOTTI - 14/09/2012

Alla domanda se esista un beat italiano la risposta è sì, naturalmente. Più complesso è dire quando il beat italiano è nato.

In forma del tutto indicativa, si potrebbe fissare un periodo: gli inizi degli anni Sessanta, per esempio; sulla scia delle informazioni e delle musiche che arrivavano dall’Inghilterra, si pensi a From me to you o a Please Please me o a Twist and shout dei Beatles o a Tell me dei Rolling Stones, che sono tutte canzoni rispettivamente del 1963 e del 1964 e che da lì a pochissimo tempo sarebbero entrate anche nelle classifiche italiane, ispirando i più attenti musici nostrani.

A Varese sotto i portici, già nei primi mesi invernali del 1964, accanto a un Bruno Lauzi in bombetta e cappotto di cammello, si vedevano passeggiare ragazzine che indossavano il giaccone blu e il berrettino dei marinai norvegesi, com’era allora di moda; e su qualche giubbotto compariva ricamato il perimetro dell’isola britannica, come a dire che da lì veniva tutto il meglio e tutte le speranze per un giovane di quindici, sedici anni, e magari anche di più.

Un periodo, dunque, e alcuni personaggi. Anche quell’Adriano Celentano, epigono del rockabilly, che incise poi un disco nel quale preconizzava la fine del beat. Invero, l’Adriano, che è bravo e furbissimo, ce l’aveva su con alcuni aspetti superficiali del beat: i capelli lunghi sul collo e sulla fronte, l’uso, che cominciava a diffondersi anche tra i nostri giovani, della marijuana. Ma tra Italia e USA c’era una bella differenza, e i ragazzi italiani andavano a fare il servizio di leva a Cuneo e a Vipiteno; gli altri venivano catapultati nella giungla del Vietnam.

Nessuna voce aveva Celentano – e francamente ci sarebbe stato poco da dire – contro lo stile musicale, visto che egli stesso potrebbe essere considerato un vessillifero del beat-rock, e anche del lento-nazional-popolare, suo malgrado.

Se però per genere beat si intende l’esplosione dei gruppi e le loro frequenti incursioni nelle classifiche, e soprattutto nei salotti di casa durante le festicciole d’un tempo, è il 1967 l’anno maestro del beat, con tutti i limiti che una tale scelta soggettiva comporta. In quell’anno, ormai, non esisteva più un garage che non ospitasse giovani strimpellanti (una delle caratteristiche del beat è proprio quella del “complessino”), così come non c’era ragazzo che non avesse imbracciato almeno una volta una chitarra elettrica.

Al festival di Sanremo, che è – meglio, è stato – il santuario della musica italiana, nel 1967, l’anno funestato dal suicidio di Luigi Tenco, si registrò la presenza dei Rokes (Bisogna saper perdere), che arrivarono sesti. Il Festival lo vinsero Claudio Villa e la Zanicchi.

Nel 1967 uscì la canzone che a giudizio di Mogol, al secolo Giulio Rapetti, il più grande poeta di parole in musica, rappresentò una svolta epocale, “29 Settembre”, per la cui composizione si andò a coinvolgere la voce di un vero speaker radiofonico.

Ancora, nel 1967, apparve nei juke-box (ma non ai microfoni della RAI che si rifiutava di trasmetterla, mentre lo faceva la Radio Vaticana) la canzone Dio è morto, di Francesco Guccini, scritta per i Nomadi e per la voce magistrale, indimenticabile, che fa venire ancora i brividi a riascoltare, di Augusto Daolio.

Tra la fine di giugno e l’inizio del mese di luglio del 1967 il palazzetto dello sport di Masnago da poco inaugurato ospitò un concerto dell’Equipe 84. Pienone. Tutti in piedi a urlare quando Vandelli sostenuto da Victor Sogliani e da Franco Ceccarelli, davanti allo scatenato mini-batterista Alfio Cantarella, intonò Apro gli occhi e ti penso…, l’attacco di Ho in mente te.

Sulla rivalità tra i Nomadi e l’Equipe 84, entrambi di matrice emiliana, i giornali ci hanno marciato. Ma qui si parla di beat italiano, un beat tricolore fatto anche di lasagne, di pizza e di piadine. E il ’67 funziona meglio del ’66, quando ci furono fenomeni beat di non poco conto, come quello di Caterina Caselli, che aveva portato al Festival Nessuno mi può giudicare con quel movimento rotatorio delle mani che diceva ripreso dalla mamma, mentre faceva la pasta…O da Ragazzo triste di Patty Pravo, la reginetta del Piper. Del beat il 1967 rappresentò la nascita e la maturità, nello stesso tempo.

Il beat – almeno le attese che erano state accese nei cuori dei ragazzi dell’epoca, perché la musica, le canzoni, le canzonette sono anche dimensioni dello spirito – cominciò a spegnersi l’anno dopo e, soprattutto in Italia, nel ’69. Sopraffatto dalle parole e dalle filosofie. Non erano più tempi.

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