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Universitas

LE LAMPADINE CHE ACCENDONO LA VITA

SERGIO BALBI - 16/11/2012

Nell’aula magna dell’Università dell’Insubria si è tenuto il convegno dal titolo “Tecnologia per la vita. Quando il progresso è al servizio del più debole” organizzato dall’associazione Scienza & Vita. Tra i relatori era presente l’avvocato Fabrizio Chianelli, che ha narrato la propria esperienza di persona affetta da tetraplegia in seguito a un trauma midollare cervicale avvenuto nel 1982. Il suo racconto ha preso le mosse dai primi sentimenti di consapevolezza del grave deficit riportato, che lo hanno condotto fino a pensieri di disperazione e morte di fronte alla non accettazione di una condizione permanente occorsa all’improvviso, nel pieno del vigore giovanile; il tutto era gravato anche dalla reale difficoltà, nonostante l’assistenza in un centro riabilitativo di prim’ordine, di vivere in un mondo poco sensibile e preparato ad accogliere e sostenere persone con gravi disabilità.

Questo fatto però ha permesso a Chianelli di “fare scattare qualche cosa nella sua mente”, come lui stesso ha testimoniato, e l’ha portato a cercare e studiare soluzioni, dalle più semplici alle più tecnologiche, per rientrare nel mondo e avere una vita attiva, una vita che lo accoglie tutti i giorni e gli permette di esprimersi e portare all’attenzione della comunità, con iniziative di divulgazione a vari livelli, la realtà quotidiana dei portatori di handicap.

Mi lasciano sempre stupefatto e pieno di ammirazione le dichiarazioni riguardo a intuizioni che cambiano la vita. Di norma le consideriamo soluzioni più congeniali alla trama di un film o di un romanzo, che preludono a un lieto fine e raramente crediamo che possano rappresentare momenti decisivi della nostra vita quotidiana. Eppure questi episodi di ispirazione, di coscienza illuminata sono reali e descritti nella storia dell’arte, del pensiero e sono oggetto di studio nel campo delle neuroscienze. Solo due esempi, come documento di questa affermazione, tratti dalla storia scientifica recente: in una lettera all’amico Maurice Solovine, filosofo e matematico rumeno, Albert Einstein, descrivendo in sintesi le modalità di funzionamento del pensiero scientifico e della ricerca, metteva in rilievo come dal contatto con l’esperienza nascano gli assiomi, momenti intuitivi, “extralogici”, comprensivi delle molteplici forme del reale, dai quali possiamo poi derivare conclusioni operative per far ritorno al mondo dell’esperienza.

Il matematico Andrew Wiles, risolse, dopo anni di lavoro concentrato ed esclusivo, il famoso ultimo teorema di Fermat, in cerca di soluzione da tre secoli, con un’intuizione improvvisa, un attimo in cui tutto si mise in ordine e ogni tassello trovava il suo posto e una perfetta sequenza logica. Momenti, istanti che valgono una vita di lavoro e disciplina per arrivare a evocarli, come fece appunto Wiles.

Ma Fabrizio Chianelli, per come vedo io la questione, ha fatto molto di più di quanto hanno potuto insegnarci la pur vera ed efficacissima sintesi di Einstein o l’esempio di Wiles: nel suo racconto ha dato corpo e sostanza al fatto di avere dato ascolto alla propria intuizione, l’ha poi coltivata costantemente, senza cedere alla stanchezza o alla disillusione in modo permanente (immagino che avrà avuto molti momenti di resa ma, stando a quello che di lui possiamo vedere oggi, mai definitivi) e forse il valore fondamentale che credo di scorgere nella sua storia è quello di avere sempre tenuto fede a quella intuizione.

La capacità di tornare alle motivazioni iniziali che ci hanno spinto ad intraprendere un percorso, con la stessa energia e lo stesso ampio sguardo che quei momenti intuitivi ci donano rappresenta una risorsa fondamentale per una crescita umana costante.

Sono convinto che le “lampadine” che accendono la mente non siano prerogativa di persone elette, ma siano strumenti disponibili a tutti. Solo una pressante necessità e un’attenzione particolare alla ricchezza del quotidiano li rendono capaci di incidere veramente nella nostra vita. Il lavoro e la fatica che però questi chiedono per onorare il patto di fedeltà originale alla loro luce ci relega qualche volta a contemplarli da debita distanza, cullandoci nella pigra malinconia di chi si commuove di fronte all’happy ending di un bel film.

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