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Politica

IL MORALISMO CHE AGGIUNGE CRISI A CRISI

CAMILLO MASSIMO FIORI - 25/01/2013

La società attuale ha come “status symbol” il rumore, il chiasso: si applaude persino durante i funerali. Fino al secolo scorso il comportamento discreto faceva parte della buona educazione e il vociare era il segno da cui si riconosceva la parte più incolta del popolo.

Oggi la globalizzazione ha omologato i comportamenti indotti dalla televisione; più si fa chiasso e più c’è gente che ti nota e parla di te; il privato individuale viene ostentato in pubblico. Questo atteggiamento, che ha contaminato soprattutto la politica, può essere una mania di protagonismo; può costituire mancanza di concentrazione, come se il cervello non sopporti più il silenzio e abbia bisogno di stimoli esterni; ma può anche essere anche il simbolo della perdita della dimensione spirituale dell’uomo contemporaneo.

L’incapacità di stare soli con sé stessi ha come conseguenza la mancanza di riflessione; volendo vedere, sapere, conoscere tutto si finisce per perdere la conoscenza di sé, cioè della base della responsabilità personale, dello stato di adulto, della raggiunta maturità etica.

Fuggire gli urli, i rancori, le risse non significa isolarsi dal mondo, non prendere posizione ma coltivare la solitudine positiva che ci permetter di riflettere sulla condizione umana.

Tra gli schiamazzi più fastidiosi vi sono quelli dispensati a piene mani dai moralisti su tutti i media che invadono la nostra esistenza quotidiana. L’Italia abbonda di finti intransigenti, di “sepolcri imbiancati” che parlano su tutto senza approfondire alcunché e proporre qualcosa in positivo.

Una pletora di intellettuali, giornalisti, “showmen”, persino di comici, si è autoinvestita della missione etica di delegittimare dottrine, istituzioni e persone presentate spesso come dei nemici assoluti.

È un moralismo di mestiere quello dei censori che collocano la verità e la bontà dalla loro parte mentre attribuiscono all’avversario falsità e malafede. Quasi sempre il chiasso, lo sproloquio, la denigrazione sostituiscono gli argomenti della ragione e il rispetto verso chi pensa diversamente.

Non è questo lo stile della democrazia e del confronto delle idee.

“Litigare fa bene alla libertà” – diceva il filosofo Nicola Abbagnano – a condizione però di non soverchiare l’esercizio della ragione con i clamori dell’intolleranza e dell’arroganza.

Il rischio è praticamente evidente in questa stagione politica in cui il confronto tra idee e programmi è quasi inesistente e gli uomini pubblici ricorrono all’invettiva e alla polemica invece di argomentare le proprie tesi. I demagoghi ci sono sempre stati, spesso hanno avuto successo sia pure con risultati disastrosi, ma nella società post-moderna la loro influenza è stata potenziata dai mezzi di comunicazione, anche “on line”. Tale pernicioso condizionamento delle persone è debolmente contrastato dalla diffusione dell’istruzione e della cultura che, essendo di tipo selettivo, fa coesistere spesso la conoscenza specialistica con un arido umanesimo e con la incapacità di discernimento critico.

Francesco Margiotta Broglio ha recentemente richiamato l’attenzione sui vecchi e nuovi predicatori televisivi che, con le loro parzialità, intralciano la formazione di libere coscienze critiche. Si è così creato – incalza Giulio Giorello – “un immaginario fondato su spreco e volgarità” che configura un nuovo “esercizio imperiale del potere” a cui si sottopongono i cittadini in un mondo globalizzato che provoca spaesamento, incertezza e paura.

Nella società della competizione, nelle città frammentate dove tutti corrono per stare dentro, e molti hanno il destino di sentirsene fuori, vengono meno i valori condivisi, la coesione sociale e la politica non è più la ricerca del bene comune ma il luogo dove dilaga la protesta, si riversa la rabbia e si esprimono i sentimenti e i risentimenti che inquinano la democrazia.

Se le elezioni prossime si svolgeranno su queste basi è facile prevedere che lo scontro avverrà su categorie extra politiche, quelle tra “vecchio” e “nuovo”, tra “simpatico” e “antipatico”, tra “amico” e “nemico”, dove le parole non hanno alcun rapporto con la realtà e prevale l’emulazione a dissacrare e a distruggere anche ciò che di positivo la società italiana ha saputo costruire. Il richiamo di Mario Monti a superare le vecchie “categorie” della politica in cui “destra” e “sinistra” non fanno più riferimento alla realtà di oggi ma sono eredità di un passato remoto, non sembra essere stato accolto dalla maggioranza dei cittadini che si accingono a esercitare il loro diritto di voto secondo schematismi ideologizzanti del secolo scorso.

Così non si risolve la crisi economica ma si aggiunge una seconda crisi non meno devastante della prima, quella culturale. Indignarsi non basta, per cambiare occorre un’assunzione collettiva di responsabilità.

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