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Spettacoli

IL NOSTRO PICCOLO ANTONIO

MANIGLIO BOTTI - 31/05/2013

All’inizio era il rock. Un rock italiano, fatto per lo più da imitatori dei grandi americani (Bill Haley, Little Richard, Elvis Presley), ma che pure aveva un qualche cosa di particolare, di esclusivamente nostro come le nebbie milanesi attorno ai Navigli e le serate trascorse nelle latterie-bar – ed è il caso tanto per non andar lontani di Adriano Celentano – oppure come le ridenti colline sanmarinesi e laziali, e si parla allora di Little Tony e, qualche anno più tardi, di Bobby Solo.

Proprio con Adriano – siamo alla fine del mese di gennaio del 1961 – Little Tony (il piccolo Antonio della famiglia Ciacci…) reduce dai successi conquistati da ragazzino a Londra si presentò al Festival di Sanremo con un brano che bene simboleggiava il “nuovo” genere musicale: “Ventiquattromila baci”. Arrivarono secondi, l’Adriano e Little Tony; il Festival lo vinse ancora una canzone per l’epoca più corretta politicamente (“Al di là”, testo di un giovane Mogol e musica del maestro Donida da Milano-Porto Valtravaglia, sceneggiata alla vecchia maniera da Luciano Tajoli e Betty Curtis), ma Celentano e il suo coequipiér rocchettaro romano-sanmarinese, tutto ciuffo, giacca di lamé e stivaletti, avevano tracciato alla grande il solco della favola. Celentano, che salì sul palco del salone delle feste del Casinò municipale di Sanremo, e cominciò a cantare con la schiena rivolta verso il pubblico, teneva tra le mani il boccino del rock and roll italiano e della pseudocontestazione. Little Tony, che – almeno per quanto riguarda il rock – era forse più genuino ed esperto di lui, gli faceva allora da egregia spalla.

Le carriere di Adriano Celentano e di Little Tony, dopo quella felicissima stagione degli inizi, non si sono più incrociate. E anche nel cinema le strade intraprese hanno avuto percorsi molto diversi: di tono autorale (talvolta in modo ambizioso e velleitario) le scelte del primo; più legato alla tradizione obbligata dei musicarelli il secondo, che guardava sempre al juke-box, come Gianni Morandi o Bobby Solo.

Little Tony – nonostante le lontane “ascendenze” americane e londinesi – è stato un cantante tipicamente italiano. Anche nella moda o nel look sgargiante e imitativo. Anche nel ciuffo ribelle (“Mi han detto che ti piacciono / i ragazzi col ciuffo / Mi han detto che ti piacciono / i tipi come me…”). Anche nella predilezione eclatante per le auto sportive e costose. Insomma, il ragazzo di un perenne Luna Park, che immagini sempre sorridente, capelli al vento, rayban a goccia e vestito come un cowboy mentre guida una vetturetta dell’autoscontro, più che una Ferrari.

Uno che non ha mai fatto il furbacchione e che è sempre rimasto sé stesso. Tra i ragazzi sotto naja, agli inizi degli anni Settanta, funzionava molto una sua canzone sconosciuta alla maggioranza: “La fine di agosto”: “Verrà lo so verrà / la fine di agosto / e poi per me sarà / la fine di tutto / ma non finirà / anche tu lo sai / questo grande amore / che tu mi dai…”. Aria di Vipiteno e di caserme, dove l’attenzione si concentrava soprattutto su quella “fine di tutto”, che prima o poi sarebbe dovuta arrivare.

Little Tony è stato il cantante di tante piacevoli americanate (all’inizio), ma poi riconosciuto soprattutto per le sue performance al “Disco per l’estate”, al Cantagiro e, soprattutto, al Festival di Sanremo. Così è rimasto sempre il cantante naif e autoctono di “Bada bambina”, di “Riderà”, di “Cuore matto” e – soprattutto – della bellissima, diciamo pure sofisticata, “La spada nel cuore” (scritta e musicata, guarda un po’, da Mogol e dal maestro Donida), portata al Festival di Sanremo nel 1970 e cantata in coppia con Patty Pravo.

Quando è apparsa la notizia che il libro di Little Tony s’era improvvisamente e inaspettatamente chiuso, nessuno – o pochi – ha pensato a lui come a un epigono di Elvis. Gli è stato detto ciao come a un nostro Piccolo (Grande) Antonio.

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