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Opinioni

SECESSIONE, IL SOGNO CHE FU

VINCENZO CIARAFFA - 24/11/2011

 

Qualche anno fa, durante un’intervista concessa al Corriere della Sera, l’ex ministro dell’interno Beppe Pisanu, accusò Bossi di fare politica “con l’orecchio teso alle voci delle osterie della Bassa Padana”, ma era vero l’esatto contrario: la Lega è entrata in crisi proprio perché Bossi ha smesso di tendere l’orecchio a quelle voci!

Forse Pisanu, allora, non sapeva che non esistevano più molte osterie nella Bassa Padana – posti sicuramente meno chic di quelli che lui solitamente frequenta – e, comunque, su quelle poche rimaste andrebbe collocata una lapide con la scritta: “Qui si tracannò la protervia del Potere!”. Infatti, è incontrovertibile il fatto che da quelle osterie eruppero – genuine e spontanee – le prime grida ostili contro un sistema politico che stava alla democrazia rappresentativa come la pipì di un neonato al fiume Po. Bossi (anche se in realtà fu più Miglio) di quelle grida si limitò a fare un progetto politico interessante per quanto riguardava il rinnovamento amministrativo del nostro Paese, ma confuso, velleitario e familistico nella sua trasposizione operativa.

Passata la fase ruggente del celodurismo e del secessionismo, il senatùr realizzò, suo malgrado, che una qualche forma di federalismo sarebbe potuta nascere, non sulla spianata di Pontida, bensì nei palazzi del potere romani. Pertanto, dopo avere compresso in un accettabile contenitore istituzionale un movimento politico potenzialmente eversivo, fece le valige per la capitale dove portò le istanze di una “Lega di lotta e di governo”, come dire che a Roma (ladrona) avrebbe fatto il ministro dell’odiata Repubblica unitaria, mentre a Pontida avrebbe brandito lo spadone di Alberto da Giussano. Il gioco truffaldino gli ha retto fino a quando – dopo una diecina d’anni di governo assieme a Berlusconi – la base della Lega ha preso rumorosamente atto che il federalismo promessole non si sarebbe potuto realizzare in questo secolo. A seguito di questa deprimente presa d’atto sono, puntualmente, sopravvenuti i primi contrasti all’interno del partito, contrasti dai quali la leadership di Bossi ne è uscita piuttosto appannata, così come si è appannato il monolitismo di un movimento politico che fino a ieri aveva operato nel culto unificante del Capo.

Dopo le recenti dimissioni di Berlusconi e la costituzione della salvifica ammucchiata dei partiti che sostengono il governo dei tecnici di Mario Monti, Bossi ha deciso di mostrare i muscoli, passando all’opposizione e riaprendo il Parlamento Padano, una villetta di Vicenza la cui ubicazione è ignota perfino a molti leghisti. Dalle assise vicentine risentiremo di nuovo tuonare contro “Roma ladrona”, com’è sicuro che sentiremo evocare ancora la secessione del Nord. Ma, per Bossi, minacciare la secessione oggi, dopo non essere riuscito a realizzare neppure il più blando federalismo in dieci anni di governo, è come minacciare lo Stato unitario con una pistola ad acqua. Lui non l’ha capito, i pasdaran del centralismo sì!

Dopo che il professor Monti ha raccolto la guida del Paese dalle mani di Berlusconi e avere ricevuto, poi, la massiccia, scontata fiducia da parte del Parlamento, Bossi ha commesso l’errore che potrebbe portare alla fine della sua leadership. Infatti, negando un appoggio in qualche modo “condizionato” al nuovo tecno-governo, che peraltro non ne ha bisogno, Bossi ha messo il partito fuori gioco, mostrando a tutti che in Italia i governi si possono fare e disfare senza la Lega. Non è stato un caso, infatti, che il primo dicastero che Mario Monti (creatura di Giorgio Napolitano, notoriamente avverso al progetto federalista) ha tranquillamente eliminato è stato proprio quello delle Riforme, retto fino a qualche settimana fa dallo stesso Bossi, sostituendolo con l’inedito ministero della Coesione territoriale. Come dire che questo è il momento di unire più che dividere, o più indirettamente “Mettetevi l’anima in pace perché abbiamo cose più serie a cui pensare!”. E, dopo circa dieci anni di condivisione del governo, questo non è stato proprio un risultato esaltante per la Lega.

Ma, aldilà della rinnovata durezza degli slogan, crediamo che, in cuor suo, lo stesso Bossi abbia capito che la minacciata secessione non è più spendibile neppure come ipotesi strategica, e questo per l’entrata in campo di nemici che lui non aveva messo in conto: le Borse. Infatti, se fino a qualche anno fa l’arroccamento localistico sembrava essere il migliore antidoto contro l’invadenza dello Stato centralistico oggi, con la bancarotta che bussa prepotentemente alle porte del nostro Paese, anche in Padania quell’invadenza viene vista con maggiore indulgenza, se non addirittura come salvifica.

Pertanto, crediamo che perfino i leghisti più arrabbiati abbiano realizzato che un’eventuale “Padania libera” sarebbe, in realtà, soltanto una Padania libera di morire per consunzione: se la finanza internazionale è stata capace di fare strame della nostra economia da ottava potenza economica mondiale e orientare – com’è avvenuto una settimana fa – la scelta del capo del governo, figurarsi cosa farebbe di un improbabile staterello prealpino secessionista!

Ma quand’anche la follia prendesse il sopravvento sulla ragione, quale esercito di liberazione seguirebbe El Libertador con la casacca verde, posto che la Lega non è riuscita a mettere insieme neppure quelle squadre di pensionati che dovevano essere le “ronde padane”? Tutti i piccoli imprenditori, gli esercenti e quegli italiani del Nord che – in buonafede – avevano inseguito il sogno federalista e che, invece, si sono ritrovati a mani (e tasche) vuote dopo dieci anni di Lega nel governo, stanno già transumando altrove. In questo senso sono chiarificanti due raffronti statistici: appena a febbraio scorso, se fossimo andati alle urne, il dodici per cento degli italiani avrebbe votato la Lega, oggi quella percentuale è scesa di quattro punti. E non è detto che la discesa si fermi qui.

Probabilmente la Lega dovrebbe ripartire dall’onesta interpretazione del significato intrinseco di questi due dati per costruire un nuovo e più credibile progetto federalista, invece di riprendere a rincorrere la suggestione di una irrealizzabile secessione. Magari sotto la guida (inaudita bestemmia!) di un nuovo leader. Anche perché col ritorno al celodurismo e col consenso dell’otto per cento di sessanta milioni di italiani si può soltanto secedere dall’intelligenza.

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