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Politica

PARTITO O PREMIERSHIP

CAMILLO MASSIMO FIORI - 15/11/2013

Dopo vent’anni di irrisolta transizione i nuovi soggetti politici e l’inedito sistema bipolare “all’italiana” non hanno saputo risolvere i nodi strutturali del Paese e non sono riusciti a competere nella nuova economia finanziaria, in un mondo divenuto globale e interconnesso. Non è solo il Partito Democratico ad essere diviso in correnti (diciannove contro il massimo di tredici della vecchia D.C.), anche la rinata Forza Italia si presenta all’appuntamento di un improbabile ritorno alle origini con una divisione verticale che ha guastato anche i rapporti umani e prelude ad una scissione. Scelta Civica sta dissolvendosi in una serie di schegge del passato che non riescono ad amalgamarsi e il Movimento 5 Stelle ripropone un insieme di cinismo e di volgarità che definisce il nuovo populismo elettronico.

Il governo delle “larghe intese” di Enrico Letta è un fragile baluardo all’irrompere dell’irrazionalità e fa da argine provvisorio ad un caos che travolgerebbe l’Italia, ma purtroppo è l’unica soluzione possibile perché una maggioranza parlamentare omogenea che indichi una strategia non gratificante ma necessaria non è alle viste.

Siamo certamente di fronte ad una crisi di sistema che si colloca in un contesto politico, sociale, economico di accelerato cambiamento. Ma questo quadro è esattamente lo specchio di una società travolta da una mutazione antropologica.

La personalizzazione della politica, l’individualismo veicolato dal consumismo e dal prevalere di una concezione edonistica, la caduta del senso di responsabilità collettiva travolta dal relativismo morale hanno spostato il baricentro del potere fuori dalle oligarchie, ma la preminenza della leadership ha nel contempo depotenziato l’importanza delle idee, dei programmi e della discussione.

I mezzi che dovrebbero aprire alla modernità, allo sviluppo delle persone, al progresso della società, sono stati piegati ai piccoli interessi individuali e servono per replicare comportamenti arcaici come il familismo amorale, le clientele, lo spirito di clan, l’indifferenza verso il bene collettivo.

L’ipermodernità non si traduce nella maturazione delle persone, nel potenziamento della loro capacità di giudizio, nella qualità delle agenzie educative. Il disastro educativo ha portato al fallimento di due generazioni, quella degli adulti che hanno abdicato alle loro responsabilità e quelle della nuove generazioni che nella trasgressione cercano una compensazione alle loro frustrazioni. Gli italiani sono diventati indifferenti all’idea di ordine sociale, non riescono più a percepire valori e principi, tutto è permesso perché tutto è relativo.

Mancano le condizioni di base anche soltanto per replicare le grandi utopie del passato, per immaginare una soluzione di palingenesi radicale.

A questa decadenza, a questo degrado, si può rimediare aprendo spazi di riconoscimento reciproco e di partecipazione, con l’unica condizione di non chiudere gli occhi di fronte alla realtà.

L’aspra discussione in atto nel Partito Democratico è indicativa di un vuoto culturale, dell’assenza

di ideali e di prospettive di futuro. La lettura della dinamica congressuale del Partito Democratico, a livello nazionale, è abbastanza chiara: la segreteria Bersani ha avviato negli anni scorsi un processo consapevole e culturalmente agguerrito di restaurazione del partito oligarchico di massa, seguendo la traccia di un’analoga impostazione, ma più flessibile e più sofisticata, da parte di D’Alema, fatta propria da Epifani e raccolta da Cuperlo. La restaurazione ideologica di Bersani è tutt’altro che ingiustificata ma, a tacer d’altro, si basa sull’esito catastrofico del “berlusconismo” che ha aperto un nuovo spazio per gli eredi dei partiti di massa, con la loro identità collettiva e il loro radicamento territoriale. Non è certo una azione di restaurazione, di ritorno al passato; anche con il P.C.I si erano affermate le leadership di Togliatti e di Berlinguer e l’esperienza della Democrazia Cristiana, partito notoriamente antileader, si è svolta sui binari del centrismo tracciato da De Gasperi e su quelli del centro-sinistra impressi da Moro, due grandi leader. Questa linea, caratterizzata nettamente a sinistra, suscita i sospetti di una parte del Partito che ritiene siano state alterate le origini genetiche del nuovo soggetto politico che era stato preceduto dall’Ulivo (prima esperienza di incontro tra culture diverse).

Questa impostazione fu messa in discussione dal successo inaspettato del movimento populista di Grillo ma la scossa più forte venne dall’interno, dalla richiesta di premiership posta da Matteo Renzi che, in nome del rinnovamento dichiarò di voler rottamare la vecchia classe dirigente. Non è soltanto una scontro generazionale, Renzi ha impresso realmente un approccio nuovo alla politica che è stata trasformata da “guerra di posizione” in “guerra di movimento”, ma in questi ultimi mesi, oltre la critica e generiche indicazioni esigenziali, il sindaco di Firenze non è andato oltre e, alle volte, sembra che voglia affondare il governo Letta piuttosto che affrontare Berlusconi e Grillo. Si ripete la sindrome di Occhetto che pensava di avere vinto la partita dopo la liquefazione della D.C. e invece si trovò di fronte un concorrente nuovo. Anche Bersani si è comportato come se avesse già la vittoria in tasca, invece è spuntato un soggetto imprevisto e sottovalutato che ha impedito di raggiungere qualsiasi maggioranza. Non basta quindi vincere per assicurare la governabilità del Paese.

Su questa scelta mi pare che, anche a livello locale, si è giocato di rimessa, altrimenti non si spiegherebbe, tra l’altro, il tesseramento vergognosamente gonfiato; un processo a cui ha fatto da catalizzatore e da traino lo spostamento di alcune personalità dalle posizioni di Enrico Letta all’area di Matteo Renzi.

In sintesi, Renzi ha ragione nel temere di “trasformare il futuro in una discarica” ma puntando solo sui metodi, sulle regole, sulla comunicazione finisce anche lui nell’errore di mettere i mezzi al posto dei fini e di trasformare la politica in una “tecnicalità” senza scopo e, forse, senza senso. Il virus della personalizzazione è un dato di fatto imprescindibile ma può essere devastante se diventa una fusione tra populismo, telecomunicazione e privatizzazione dei partiti.

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