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Spettacoli

IL RE LEONE

MANIGLIO BOTTI - 13/12/2013

Il buono, il brutto e il cattivo

Della fortuna di Sergio Leone, che alla metà della sua vita ebbe la ventura di girare alcuni film straordinari – i famosi della “trilogia del dollaro”, poi con qualche cenno di discredito chiamati “western-spaghetti” – s’è parlato, e anche della genialità e delle circostanze più o meno fortuite, come quelle di trovare sul percorso attori non conosciutissimi e di lanciarli o di rilanciarli, Clint Eastwood e Lee Van Cleef, per esempio, il Ragazzo e il Colonnello.

Meditava di cimentarsi in altre imprese, Sergio Leone, quando – si racconta – vide il film di Akira Kurosawa “La sfida del samurai” e anche su consiglio di amici sceneggiatori decise di provare a tramutarlo in western, un western nuovo e diverso, invece del “solito” film del genere mitologico. Si era agli inizi degli anni Sessanta, uscirono così – prima quasi in sordina con nomi e cognomi degli autori trasformati in anonimi americani, ma presto, nei successivi film, ritrasformati nei propri italianissimi – “Per un pugno di dollari” (1964), “Per qualche dollaro in più” (1965) e “Il buono, il brutto, il cattivo” (1966).

Sergio Leone era un cineasta a ventiquattro carati, per cultura e anche per tradizione di famiglia. Tuttavia, allora, non navigava in prima linea. Perché ce n’erano altri e più celebrati intellettuali. A collocarlo tra i grandi del cinema – e di un grande si tratta –, oltre alla sua innegabile bravura, fu forse la situazione del nostro Paese di quell’epoca: americano ma non troppo e con un Far West che poteva anche collocarsi in Sicilia o in Sardegna, e magari in Spagna e nella vicina Africa settentrionale, e non solo nel Colorado, in Arizona e nell’Oregon. Le platee degli spettatori erano composte da un esercito di giovani cresciuti negli oratori a “pane e cowboy”, ragazzi che la domenica pomeriggio uscivano dalle sale correndo e battendosi le mani sull’anca a mimare lo sprone al cavallo. Non è un caso che uno dei fumetti più noti di quegli anni – e lo è anche ancora oggi – fosse l’italianissimo Tex (ma anche il Piccolo Ranger, Capitan Miki, il Grande Blek…). E nel mondo della canzonetta Adriano Celentano riproponeva gli stereotipi di Ringo…

È possibile, anzi probabile, che Sergio Leone non pensasse a tutto ciò ma soltanto a girare “tecnicamente” un film ben fatto e piacevole. Ci sono però molti agganci, voluti o casuali chissà, con quell’Italia minore, spensierata e speranzosa, da Luna Park e da fumetto. Si pensi a certi dialoghi, a certe battute dei suoi film così simili talvolta alle esclamazioni di Tex e di Kit Carson (Vecchio Cammello, Testa di Formaggio, per San Putifarre…), le stesse battute che sfornava nei suoi “giornaletti” Gianluigi Bonelli, il papà di Tex Willer.

E poi le invenzioni sceniche di Leone – magistrali – come quella del “triello”, il… duello a tre, nel finale di “Il buono, il brutto, il cattivo”. Sono state scritte pagine di saggi critici, in proposito. Clint Eastwood, Eli Wallach e Lee Van Cleef girano piano piano nell’arena; la macchina da presa indugia sui loro occhi, sulle fronti corrugate, sulle mani che sfiorano i calci delle pistole; e sotto, a timbrare la lentezza e la gravità del momento, le chitarre e le musiche di Ennio Morricone, l’antico Don Savio di “Per un pugno di dollari”. Era un duello di Tex (sempre vincente, e anche qui a cadere sarà il Cattivo… ) ma elevato all’ennesima potenza.

E, ancora, le trovate che svelano il senso del film: Clint Eastwood, il Ragazzo, che si avvicina a Lee Van Cleef, il Colonnello (siamo alle sequenze finali di “Per qualche dollaro in più”), e gli mormora: “C’è aria di famiglia in quella foto”, mentre il Colonnello accarezza un’immagine di ragazza incastonata nell’orologio a carillon appena strappato dalla mano di Indio (Gian Maria Volonté). “Succede a volte tra fratello e sorella…”, risponde il Colonnello con la voce profonda di Emilio Cigoli. Il ricordo, in un certo qual modo, si ripropone nel finale di “C’era una volta il West” (1968), dopo che Armonica (Charles Bronson) ha rivelato al killer Frank, morente (Henry Fonda), il significato della sua vendetta.

Le battute, si diceva. Quella famosissima pronunciata da Clint Eastwood a un disperato Rojo (Gian Maria Volonté, alias John Wells, nei titoli): “Quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, quello con la pistola è un uomo morto”. Ma stavolta a morire sarà l’uomo con il fucile (Rojo), anche perché ha sprecato tutti i suoi proiettili, e non è tanto lesto a ricaricare…

O quella, di puro umorismo se si vuole (ma prima di una sfida letale per Kinski), che il Colonnello (Lee Van Cleef) dice al livoroso Klaus, sulla barba ispida del quale ha acceso un fiammifero per attizzare la pipa. Kinski (Wild il Gobbo nel film) lo scorge in un angolo del saloon: “Guarda guarda chi si vede, il fumatore. Ti ricordi di me amigo? Ma sì, El Paso… ”. “Il mondo è piccolo… ”. “Sì, e anche molto cattivo: prova ad accendere un altro fiammifero!”, esclama lo stralunato Kinski, accostando la guancia al Colonnello seduto a tavola. E quello: “Abitualmente fumo dopo mangiato, perché non torni tra dieci minuti…”.

E, infine, la battuta storica del Brutto (Eli Wallach) che con le mani ancora legate dietro la schiena impreca verso il Buono (Clint Eastwood, alquanto bastardello in verità…), che si allontana a cavallo: “Ehi Biondoooo lo sai di chi sei figlio tu? Sei figlio di una grandissima p…aaa!!”. E anche la parolaccia si alza e cade in musica con un’eco nella vasta pianura.

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