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Opinioni

MARÒ IN BALÌA DELL’ITALIETTA

VINCENZO CIARAFFA - 17/01/2014

Quella dei nostri due marò è una vicenda ormai arcinota ma forse vale la pena di ripresentarla nell’essenziale prima di proseguire: i fanti di marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone furono arrestati dalle autorità indiane con l’indimostrata accusa di avere ucciso, il 15 febbraio del 2012, due pescatori della regione del Kerala nel corso di un’operazione antipirateria nel Mare Arabico e, comunque, in acque internazionali.

Nella circostanza la società armatrice della nave sulla quale operavano i due marò, il suo comandante e il governo Monti disputarono un’accesa gara a chi commettesse più errori, omissioni e atti di vigliaccheria giacché i due militari furono, poi, graziosamente messi nelle mani delle autorità indiane. In Italia, nel frattempo, scattò un’indagine della magistratura per delle tangenti milionarie pagate ad alti Ufficiali indiani da Agusta Westland per l’acquisto di dodici elicotteri da guerra. Al fine – riteniamo noi – di salvare in qualche modo le sorti di una corposa tangente che da quelle parti è una dazione pressoché istituzionale su qualsiasi forniture militare proveniente dall’estero, gli indiani concessero a Massimiliano e Salvatore il permesso di venire a votare in Italia con la promessa del nostro governo di farli, poi, ritornare in India per esservi giudicati. I due poveri sottufficiali avevano appena messo piede sul patrio suolo che arrivò il virile comunicato del nostro ministero degli Esteri: «L’Italia ha informato il governo indiano che, stante la formale instaurazione di una controversia internazionale tra due Stati, i fucilieri di marina […] non faranno rientro in India alla scadenza del permesso loro concesso». Uno Stato che, pur essendo tra i soggetti fondatori della Comunità europea, si comporta come l’ultimo quaquaraquà della Bovisa non si vedeva in Italia dalla visita di Gheddafi nell’agosto del 2010. Salvo peggiorare, se possibile, ulteriormente l’immagine del nostro Paese con una clamorosa, umiliante marcia indietro non appena il governo indiano batté i piedi per terra e consegnargli, per la seconda volta, i due disgraziati marò.

Per quanto fossimo arrivati ormai all’ordinaria amministrazione del governo di Mario Monti, il ministro degli Esteri Giulio Terzi, in disaccordo sulla consegna dei militari all’India, si dimise in pieno Parlamento con motivazioni piuttosto chiare anche se non sappiamo fino a che punto sincere: «Mi dimetto perché per 40 anni ho ritenuto e ritengo oggi in maniera ancora più forte che vada salvaguardata l’onorabilità del Paese, delle forze armate e della diplomazia italiana. Mi dimetto perché solidale con i nostri due marò e con le loro famiglie. Ero contrario al loro ritorno in India ma la mia voce è stata inascoltata. Ho aspettato a presentare le mie dimissioni qui in Parlamento per esprimere pubblicamente la mia posizione. Non posso più far parte di questo governo».

Il ministro aveva appena finito di comunicare le proprie dimissioni al governo e al Parlamento che scattò la reazione autoassolvente degli altri protagonisti della planetaria figuraccia di palta, come dire lo stesso Monti, Napolitano e il ministro della Difesa, Ammiraglio Giampaolo Di Paola la cui reazione ci insospettì, in modo particolare: «Le sue valutazioni [quelle di Terzi, nda] non sono quelle del governo – Non abbandonerò la nave in difficoltà». Fu come dire che Giulio Terzi era un pusillanime, non il governo e tantomeno lui. In quel momento non fu difficile capire che Di Paola stava facendo un favore a Giorgio Napolitano che già aveva in mente una “transizione pilotata” tra il governo di Monti e quello successivo che si riteneva sarebbe stato a totale guida del Pd e tale, apparecchiata transizione sarebbe stata compromessa dalle eventuali dimissioni del nostro Ministro della Difesa ed ex capo di stato maggiore. Sì, perché qualora anch’egli si fosse sfilato dal governo, lo avrebbero seguito per forza di cose i quattro capi di stato maggiore dando corpo, di fatto, a un pronunciamento militare che avrebbe messo in una posizione insostenibile il Quirinale.

In quella kafkiana circostanza, perciò, avemmo gioco facile a sostenere che la veemente dichiarazione del ministro non poteva che essere stata molto apprezzata da Napolitano che – malignammo – alla prima occasione se lo sarebbe ricordato. Lo scorso 5 gennaio Giampaolo Di Paola è stato nominato consulente di Finmeccanica (con buone possibilità di diventarne il presidente) cui l’Agusta Westland, quella degli elicotteri e delle tangenti all’India, è una delle società. Come dire… finalmente un messaggio di continuità per gli indiani che, adesso, potranno ricominciare a sperare d’ingoiare la saporita polpetta dell’affaire elicotteri e togliersi dai piedi i nostri due marò che, in effetti, sono sempre stati soltanto della merce di scambio.

Subito dopo la nomina dell’ammiraglio Di Paola ai vertici di Finmeccanica sono accaduti due episodi che dovrebbero farci lungamente meditare sui troppi buchi neri della nostra democrazia. Il primo episodio. Il ministro degli Esteri indiano, tale Salman Khurshid, ha ritenuto di dover dare pubbliche assicurazioni all’Italia sul fatto che quello dei nostri due poveri marò «… non rientra nei casi in cui si può applicare la pena di morte». V’è stato, poi, il secondo episodio che al primo è direttamente collegato: mentre da un lato ha annunciato di aver annullato il contratto per l’acquisto dei famigerati dodici elicotteri da Agusta Westland/Finmeccanica, dall’altro il governo indiano ha lasciato aperta la porta all’affare accettando l’idea del ricorso all’arbitrato internazionale proposto dalla nostra azienda. E ciò, secondo noi, perché l’arbitrato dovrà “costringere” il governo indiano a rientrare nell’affare per causa di forza maggiore, perché lo esige la giurisprudenza internazionale, quella stessa di cui l’India se n’è impippata trattenendo due militari di uno Stato estero che operavano in acque internazionali.

Questo potrebbe significare – salvo che qualche pm non vi caccerà ancora il naso – che i soldi delle tangenti disvelate dalla magistratura, magari in qualche inedita maniera, andranno a chi erano state promesse; che l’Agusta Westland riuscirà a venderà gli elicotteri e che i due marò potranno far ritorno alle loro famiglie. Se le cose dovessero andare veramente così, saremmo ben lieti che i due marò ritornino alle loro famiglie ma al disgusto che già proviamo oggi, si aggiungerebbe l’incomponibile disprezzo per una classe politica e dirigente che è da staterello balcanico di fine Ottocento, e per una diplomazia che si è rivelata perfino peggiore di quella del regno di Marsovia dell’operetta “La vedova allegra”.

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