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Economia

LA SCOMPARSA DEL LAVORO

CAMILLO MASSIMO FIORI - 20/03/2014

La scomparsa del lavoro in Europa che fu, tre secoli fa, la culla della “rivoluzione industriale” è un evento inquietante. Non è la prima volta che i moderni Stati europei si trovano di fronte al fenomeno della disoccupazione di massa ma, a differenza del passato, oggi si trovano a corto di strumenti adeguati per affrontare il problema.

La nascita dell’impresa industriale era stata accompagnata da violente lotte sociali e i contadini, strappati alle campagne e inurbati nelle città sorte intorno agli opifici, riuscirono a smuovere i governi dalla loro inerzia portando al potere i partiti socialisti e cristiani che realizzarono la democrazia sociale di massa.

Invece del conflitto tra le classe scaturì un vantaggioso compromesso tra capitale e lavoro che ha assicurato per molti decenni un benessere altrove sconosciuto. Dopo due guerre mondiali devastanti per cui tutte le risorse tecniche, economiche, umane e organizzative furono mobilitate per sostenere uno sforzo bellico senza precedenti, gli Stati impararono che tale mobilitazione poteva essere altrettanto utile in tempo di pace per la ricostruzione e lo sviluppo; il gigantesco impegno per la guerra poteva essere volto a fini di pace.

Furono le dittature del Novecento a impossessarsi dell’idea che lo Stato poteva essere il fulcro di tutte le forze sociali ed economiche per lo sviluppo, sicché ampliarono le prime forme di assistenza e previdenza sorte nei paesi capitalisti, per acquisire ed ampliare il consenso delle masse ma per indirizzarlo verso una strategia di annientamento che finì soltanto con la costruzione dell’Europa unita. In Italia l’economia “mista” funzionò assai bene, anche dopo la caduta di Mussolini che la realizzò; fintantoché il senso dello Stato fu più forte della rapacità dei partiti che ne provocarono la fine. Le nuove democrazie, che combatterono e sconfissero il nazifascismo, non commisero tuttavia l’errore di volgersi al passato ma utilizzarono l’esperienza acquisita dai regimi autoritari per costruire un forte “Stato sociale” che stabilizzò i cicli economici e diede alle nuove generazioni certezza di futuro.

Tale risultato fu possibile per l’esistenza di due condizioni basilari: una forte democrazia di massa che riscuoteva la fiducia dei cittadini e una concezione pragmatica dell’economia, considerata scienza tendenziale, con il mercato come utile strumento ma non come fine. Furono in effetti due economisti liberali, John Maynard Keynes e lord William Beveridge, a perfezionare negli anni Quaranta del secolo scorso il sistema di sicurezza sociale europeo e l’economia sociale di mercato che trovano, negli accordi di Bretton Woods, un ancoraggio internazionale.

L’America, che in seguito alla depressione degli anni Trenta aveva attuato il “New Deal” con cui Franklin Delano Roosevelt risollevò l’economia e il ritorno all’occupazione, si allineò alle tesi keinesiane secondo cui scopo dell’economia non è la massimizzazione del profitto ma la piena occupazione.

Il lato debole della economia sociale di mercato era l’eccesso di organizzazione e, quindi, di burocratizzazione per sostenere un sistema delicato e complesso con il rischio di una deresponsabilizzazione degli attori economici.

Tutta questa complessa costruzione sociale è crollata negli ultimi due decenni e oggi il mondo non ha più gli strumenti per governare l’economia smaterializzata e dominata dalla finanza.

La fiducia nell’illimitato progresso del pianeta venne sconvolta dagli avvenimenti internazionali che, negli anni Settanta, videro la comparsa di nuovi attori, i Paesi emergenti dalla precedente fase di colonialismo. Fu messa sotto accusa la rigidità del sistema economico e l’America si fece paladina della “deregulation” e celermente procedette allo smantellamento del “New Deal”. Il nuovo credo “più mercato e meno Stato” venne lanciato da un gruppo di economisti europei emigrati in America tra le due guerre e del tutto ignari degli avvenimenti e degli sviluppi che si erano verificati nel frattempo in Europa; essi erano rimasti fermi alla nostalgica visione della “belle epoque”, effimera parentesi dell’esperienza europea a cavallo dei due secoli. Gli allievi di Friedrich Hayek, in particolare i coniugi Milton e Rose Friedman con la schiera dei fedelissimi “Chicago boys”, elaborarono le idee che portarono ad una visione mitica di un passato remoto ed improbabile: liberando l’economia da vincoli impropri, lasciando piena libertà ai mercati si sarebbe realizzato automaticamente l’equilibrio economico e sociale. Abbracciata e imposta dai governi americani questa nuova visione, una fede più che una scienza, dilagò in tutto il mondo coinvolgendo anche il vecchio continente dove le figure più eminenti di politici ed economisti, non solo conservatori (come la Thatcher e Reagan) ma anche “liberal” (come Delors, Kohl, Clinton, Blair e Prodi), la applicarono a partire dagli anni Ottanta, riscontrandone anche la rara opportunità di alleggerire i bilanci pubblici dai troppi debiti accumulati.

Il rimedio fu peggiore del male: privatizzazioni, liberalizzazioni, abbattimento di regole e di controlli non portano l’abbondanza, ma maggiori disparità sociali e l’abdicazione della politica dal suo primato che cedette alla economia finanziaria in grado di far valere il suo potere in un mondo globalizzato e interconnesso. Lo “Stato minimo” si spogliò dei compiti che gli erano stati attribuiti nel corso dei secoli e lo “Stato sociale” venne ridotto alla sussistenza. In un mondo dominato dal “pensiero unico universale” (l’ideologia neoliberista) la ricchezza non si distribuisce più secondo i bisogni dei popoli e delle persone ma tra una ristretta schiera di privilegiati.

In questo modello di sviluppo risulta estremamente difficile per i governi nazionali, senza poteri e gravati da debiti, sostenere l’occupazione. I cittadini sono allarmati ma non hanno la capacità di abbracciare la complessità della situazione; solo la Chiesa Cattolica si è dissociata da questa visione economicistica dello sviluppo che sacrifica le persone, impoverisce le società, mette a repentaglio la sostenibilità ecologica del nostro pianeta; la sua è una voce importante ma disarmata. L’Italia deve pertanto imparare a fare presto e bene le cose possibili ma soprattutto a programmare, con l’Europa, per le future generazioni.

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