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Attualità

WALTER E I NOSTRI MITI

MANIGLIO BOTTI - 02/05/2014

Se c’è un autore, un intellettuale che più di ogni altro ha saputo coltivare il mito degli anni Sessanta questi è Walter Veltroni. La sua carriera politica, a sinistra, è stata un susseguirsi di successi e anche di battute d’arresto: fu giovane direttore dell’Unità, giornale del Partito Comunista che rinvigorì dandogli una fisionomia nazional-popolare, sindaco di Roma, grazie a lui di nuovo capitale di cultura, primo segretario dei Democratici; ma, come candidato premier, un altro sconfitto da Berlusconi. Nel partito, a ben vedere, non gli giovarono dualismi (quello con Massimo D’Alema), invidie e rivalità interne, e forse anche alcune sue visioni considerate troppo moderne e minimaliste.

Gli anni Sessanta, si diceva. Fu Walter Veltroni, poco meno che trentenne, a curare un’antologia che per gli appassionati è divenuta un libro cult: “Il sogno degli anni ‘60, un decennio da non dimenticare…”, pubblicato nel 1981 da Savelli e poi, dieci anni dopo, da Feltrinelli.

Le sue passioni sono note: il ricordo di un periodo glorioso, per chi l’ha vissuto e per l’Italia, cominciato con le Olimpiadi di Roma. Veltroni, che ancora non andava alle elementari, rammenta con grande nostalgia e gioia il momento in cui la mamma – era il figlio di Vittorio, leggendario cronista della Rai ed era rimasto orfano all’età di un anno – lo chiamò per esultare davanti alla tv quando Livio Berruti tagliò per primo il traguardo dei200 metripiani maschili: medaglia d’oro. Quelle immagini ci hanno accompagnato per anni, dato che facevano da sigla alla Domenica sportiva in tv: il volo di colombi che si alza nel cielo subito dopo la curva, che Livio aveva corso come un angelo, e ancora Berruti, occhialetti da sole e maglia scura, che abbassa il petto sul filo di lana, caracollando poi per quattro o cinque metri, dopo avere allineato i tre americani dati per favoriti, Carney, Norton e Johnson.

Walter crebbe nel mito generazionale dello sport che corroborò da giornalista alla direzione dell’Unità: sua l’iniziativa di allegare al giornale le figurine Panini dei calciatori che tutti noi, più o meno suoi coetanei, e magari anche con qualche anno in più, avevamo inseguito e raccolto da ragazzi (sempre nei favolosi anni Sessanta e qualcosina anche agli inizi dei Settanta): Pizzaballa, Santarini, Benetti, Salvadore… ; da juventino (rari ma non rarissimi nella capitale i tifosi della squadra della famiglia Agnelli), una volta che fu sindaco di Roma, dovette addolcire i colori bianconeri con quelli giallorossi. E poi di nuovo le cassette dei grandi film in vendita con il giornale “comunista” e le nostalgie per le canzonette di Sanremo, per il western all’italiana di Sergio Leone, per il Tex Willer di Bonelli, per gli Usa in genere, per Marilyn e per Kennedy.

John Kennedy, il presidente della Nuova frontiera, l’uomo della famosa frase del discorso tenuto a Berlino quando fu costruito il Muro: “Ich bin ein Berliner…”. John – la bellissima moglie, i teneri figlioletti, il suo eroismo in guerra, il volto solare e i capelli biondi, il presidente cattolico – assassinato a Dallas il 22 novembre 1963 era diventato un gigante già di per sé, e il suo mito, e quello della sua famiglia (anche il fratello Bob fu ucciso poco tempo dopo) continuò a lungo. E continua tuttora. Walter Veltroni l’ha amato, e non solo lui, anche da bravo giornalista democratico, liberal.

Nel film di Alan Pakula – Tutti gli uomini del presidente (1976) – il film che rievoca l’inchiesta-indagine dei due cronisti del Washington Post Bob Woodward e Carl Bernstein e che portò poi all’impeachmet dell’ ”eterno rivale” Nixon, il ritratto di JFK campeggia nell’ufficio del caporedattore, Benjamin C. Bradlee, anch’egli un giornalista del mito, interpretato da Jason Robards (Bob, invece, era interpretato da Robert Redford e Carl da Dustin Hoffman).

Che poi John fosse stato il presidente della Baia dei Porci, della massima tensione con l’Urss di Kruscev (ottobre 1962), quando si arrivò alle soglie della terza guerra mondiale, il presidente che cominciò a inviare massicce forze di “consulenti militari” in Vietnam, dando inizio a una guerra devastante per gli Usa sotto il profilo morale, guerra cui invece mise fine il vituperato repubblicano Nixon (e Henry Kissinger con lui), il presidente (forse) legato alla mafia italo-americana, l’impenitente che non lasciava mai nulla di intentato con le donne dai diciotto ai sessanta, pazienza. Non è questo il punto. Un mito per Walter e per tutti noi.

Anche in questo quadro di sentimenti – intendiamoci, tutti positivi – ci sentiamo di inserire il film-documentario realizzato da Walter Veltroni “Quando c’era Berlinguer”. Di quest’opera s’è parlato, e con annotazioni importanti, l’altra settimana su questo stesso giornale. Enrico Berlinguer, segretario del Pci – il principale partito comunista dell’Ovest europeo – dal 1972 al 1984 è stata una figura di un’integrità morale, e di un’adesione a una fede politica, che fa arrossire per la vergogna molti uomini politici di oggi. La sua morte, avvenuta nella tarda primavera del 1984, mentre teneva un comizio a Padova, commosse tutti, amici – a cominciare dal presidente della Repubblica dell’epoca, Sandro Pertini – e avversari politici. Berlinguer cadeva come un servente abbarbicato al suo pezzo. La sua morte sul campo – Veltroni che è diplomato all’Istituto superiore di cinematografia ci perdonerà il paragone – ricorda un poco quella sul palcoscenico di Calvero, il grande clown – ognuno di noi recita la sua tragedia o la sua commedia – impersonato da Chaplin nel film Luci della ribalta. Una fine che toccava i cuori, e una similitudine che non vuole certo essere irriverente.

I giudizi politici complessivi sulla gestione berlingueriana del maggior partito della sinistra li lasciamo ad altri commentatori. In ogni caso inducono a qualche riflessione. Luciano Pellicani, docente di sociologia alla Libera università di scienze sociali di Roma, scrisse che Berlinguer “fu (…) l’uomo dello ‘strappo’ da Mosca, ma (…) fu anche l’uomo della ‘ricucitura’. Né avrebbe potuto essere diversamente. Mai ebbe dubbi sul fatto che la salvezza sarebbe venuta ex oriente (ndr, ombrello Nato a parte) sotto forma di società pacificata nel segno della falce e martello…”. Il politologo Giorgio Galli, in suo famoso saggio, disse ancora, per esempio, che Enrico Berlinguer, sul piano interno, “non valutò (…) esattamente di che tipo fossero i comportamenti politici in atto nella società italiana e che sfociarono nel voto politico del 1976…”, che conferì al Pci uno dei maggiori consensi raggiunti.

Giusto, doveroso, che i giovani di oggi sappiano, che ricordino e che studino. Al di là e oltre i giudizi. Per la verità gli anni in cui Berlinguer fu segretario – quando c’era lui – non furono per il nostro Paese anni esaltanti. Erano anni di lutti, di terrorismo, di delitti politici. Da lì a poco sarebbe nato il CAF (il patto Craxi – Andreotti – Forlani), in un certo qual modo il preludio di Tangentopoli. La svolta vera e storica, per il Pci, e non senza lacerazioni, la portò a compimento nel 1989 alla Bolognina tra le lacrime Achille Occhetto, quando il Pci diventò Pds. Ma chi sa se si farà mai un film-documentario intitolato “Quando c’era Occhetto”, che oltretutto non ha neanche un bel suono.

Anche noi viviamo di miti, di nostalgie, per lo più legate alla nostra giovinezza. Ma ha detto bene Roberto Cotroneo su Sette, il periodico del Corriere della Sera, nella recensione del film di Veltroni, riprendendo il concetto secondo cui il paradosso della nostalgia è un nostro contrappasso, che ci impedisce di capire bene dove mai inizia il futuro.

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