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Cultura

ATTUALITÀ DI HANNAH ARENDT

LIVIO GHIRINGHELLI - 23/05/2014

Hannah Arendt è famosa soprattutto per due opere: Le origini del totalitarismo (1951) e La banalità del male (1963). La prima è un’analisi genealogica dei fattori che hanno innescato la miccia totalitaria, a partire dall’antisemitismo: questo fenomeno, diffuso in tutta l’Europa dell’Ottocento, è da attribuire per l’autrice non tanto a una reazione contro l’importanza finanziaria assunta dalle ricche famiglie ebraiche, quanto all’emancipazione politica degli ebrei in termini di cittadinanza, con perdita relativa di potere e di capacità d’influenza (in precedenza la tolleranza religiosa delle corti europee ne aveva favorito i privilegi). La diversità rispetto agli altri cittadini veniva a corrispondere per l’opinione pubblica a qualità psicologiche intese come caratteristiche innate. L’identità ebraica si trasformava in fattore razziale.E il razzismo, che si fondava su teorie pseudoscientifiche, come quelle esposte nel Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane di Arthur de Gobineau – 1853- fu segnato dalla fase storica dell’imperialismo, caratterizzata da razzismo e burocrazia. Si dava per implicita la superiorità razziale dell’uomo europeo. Di qui la perversione autoritaria dei sistemi liberali in funzione ideologica di creazione dell’uomo nuovo, la pervasiva e capillare azione della propaganda, l’indottrinamento di una massa perennemente mobilitata, lungi da ogni richiamo di solidarietà e di interazione e la manipolazione totale della realtà.

Il finalismo meccanico di classe alla base della presunta palingenesi staliniana. E alleato dell’ideologia il terrore nella sua pratica quotidiana con l’invenzione aberrante del “nemico oggettivo”. Ecco il campo di internamento e di sterminio, con privazione di ogni caratteristica propriamente umana. La morte qui diventa anonima.

Il concetto di banalità del male è mutuato da Arendt in relazione all’esperienza compiuta a Gerusalemme all’epoca del processo intentato ad Adolf Eichmann, il gerarca nazista responsabile della deportazione degli ebrei nei lager. Nessuna malvagità demoniaca a suo carico, ma la normalità tutta burocratica, amministrativa,di un adeguamento ripetitivo agli ordini, un’obbedienza senza interrogativi, la banalità di crimini in cui non si opera più distinzione tra bene e male, annientata la capacità di critica, di giudizio, di scelta. E nel saggio la stigmatizzazione del comportamento di vari capi della comunità ebraica : rari i casi di resistenza.

Nata da una ricca famiglia ebrea baltica, Arendt cresce in un ambiente decisamente progressista, si trasferisce con la madre a Berlino durante la prima guerra mondiale e nel 1924 si iscrive all’Università di Marburg, allieva del filosofo Martin Heidegger, già assistente a Friburgo di Edmund Husserl. Immediata l’attrazione della giovane per Heidegger, che sta lavorando alla sua opera più rinomata Essere e tempo. Si tratta peraltro di un rapporto intenso, ma unilaterale. Non accetterà del maestro, nonostante la stima di fondo, la sua compromissione con il Partito nazionalsocialista e comunque tornerà ad incontrarlo senza risentimenti, ma con distacco. Si trasferisce prima a Friburgo seguendo le lezioni di Husserl, poi ad Heidelberg, laureandosi con Karl Jaspers con una tesi sul concetto d’amore in S. Agostino (per lui il male significa assenza o riduzione del bene, causa deficiente).

A Berlino reincontra un collega dei tempi di Marburgo, vicino ai circoli intellettuali comunisti, Gunther Stern e lo sposa, ma se ne allontana ben presto e sempre più per le differenze ideologiche. Con il precipitare della situazione politica (incendio del Reichstag – 1933) è arrestata dalla Gestapo e si affilia alla causa ebraica. Fuggita a Parigi, vi conosce Bertolt Brecht e Walter Benjamin. Il 16 gennaio del 1940 sposa il poeta e filosofo Heinrich Blücher, il vero compagno della sua vita. Con lui raggiunge l’America e assume una posizione sempre più critica verso il radicalismo ebraico (ribadisce la necessità di una federazione ebraica, non dello Stato di Israele).

Nel 1958 pubblica Vita activa, criticando la tradizione della filosofia occidentale, che la subordina a un’esistenza di contemplazione (la metafisica di Platone subordina azioni e realtà al mondo immortale delle idee). Non va invece ignorata la pluralità, la quintessenza della politica. La libertà va considerata nelle relazioni con gli altri, non in quelle con noi stessi. L’opzione per il bios politikòs afferisce a tre attività: il lavoro, la dimensione biologica – l’opera, work- che corrisponde alla dimensione non naturale, all’homo faber e infine l’azione che mette in rapporto con la condizione umana della pluralità.

Rimasta vedova nel 1970 Hanna Arendt attende alla stesura dell’opera La vita della mente (che si distingue in tre facoltà diverse: il pensare, il volere, il giudicare). Il pensare non è un’attività cognitiva, è bensì rivolta a una ricerca di senso. Il giudicare è la più politica delle sfere, un pensiero allargato che tiene insieme singolarità e pluralità del mondo delle apparenze.

Arendt muore a NewYork nel 1975 per arresto cardiaco, dopo aver conseguito il Premio Sonning per il suo rilevante contributo alla civiltà europea. Sono ancora una lezione attuale le sue riflessioni sulla vita della polis dopo l’esperienza totalitaria. Le pratiche di partecipazione in un rinnovato spazio politico sono una funzione basilare.

 

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