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Attualità

BENEDETTE SECCHIATE

ARTURO BORTOLUZZI - 05/09/2014

È vero: non si può prendere in giro una malattia e le persone che ne soffrono, ancor più nel caso della sclerosi laterale amiotrofica o più semplicemente SLA, che senza cure e nella sua devastante progressione, in moltissimi casi non lascia al malato alcuna via di scampo, drasticamente mortale dopo lunghe, interminabili sofferenze.

Malgrado ciò occorre sottolineare come un malato di SLA (come, in tono minore, un malato di sclerosi multipla), abbia bisogno di continui aiuti, che spessissimo vengono osteggiati: dalla burocrazia, che rende complicato fare richieste, o avere delle risposte; dallo Stato, che riesce a dare poco degli almeno seimila euro al mese che un malato deve spendere, ovvero dalla gente che non capisce ovvero fa finta di non capire i bisogni del malato.

Ciò detto, ben venga allora una trovata pubblicitaria che senza offendere qualcuno o qualcosa, permetta di parlare delle malattie e soprattutto di raccogliere fondi a favore di una ricerca che per andare avanti ha bisogno di continui finanziamenti che al momento mancano.

Non essendoci farmaci in grado non solo di sanare completamente un malato di sclerosi laterale, ma anche di fermarne la sua progressione, – in mancanza di altro – non guardiamo quindi male la trovata della doccia fredda che ha fruttato più di otto milioni e mezzo di dollari.

Chiediamoci se debba costare così tanto in termini etici il darsi da fare per il prossimo.

È mai possibile che si debba agire solo in base a un tornaconto?

Il meccanismo che è stato trovato per raccogliere i fondi per la ricerca è simile alla catena di Sant’Antonio e sfrutta una consuetudine in voga negli spogliatoi sportivi statunitensi, dove alla fine dei campionati, in caso di vittoria, parte la gara di gavettoni.

Come è scritto sul Corriere della Sera: un secchio d’acqua gelata in testa e un selfie da postare sui social. È la beneficenza ai tempi di Buzzfeed. Virale, divertente, animata e legata profondamente all’immagine. Basta farsi un giro su Twitter con l’hashtag #IceBucketChallenge per rendersi conto che la moda dell’estate non è stata lanciata sulle spiagge. Ma è nata lì, in rete, tra un cinguettio di un ragazzino annoiato e una foto degli ultimi massacri di Isis. A (ri)lanciarla è stata un’associazione benefica che raccoglie fondi per la ricerca alla SLA e che in meno di un mese, grazie a questa strategia di marketing, ha incassato 5,7 milioni di dollari.

A dare il via all’iniziativa è stato Pete Frates, 29enne ex giocatore di baseball del Boston College cui è stata diagnosticata la SLA due anni fa, e che ha deciso di fare tutto il possibile per promuovere la ricerca su questa malattia. Tradotta sui social la Ice Bucket Challenge funziona così: ciascuno deve sfidare almeno tre persone a rovesciarsi in testa un secchio di acqua ghiacciata entro 24 ore. Chi non accetta deve pagare pegno. Che, in pratica, significa donare i suoi soldi alla causa. Inutile dire che il contributo dei vip della Silicon Valley come Zuckerberg, Sheryl Sandberg, Bill Gates, Tim Cook, Satya Nadella, Jeff Bezos e Dick Costolo ha reso la catena molto più cool.

Da noi in Italia è divenuta una sottospecie di moda che porta spesso i politici o gli attori sul giornale, moda che non ho mai visto essere seguita dalla costruzione da parte loro di un ente, come si potrebbe e dovrebbe, in grado di raccogliere fondi per la ricerca.

Non posso quindi non esimermi da una triste constatazione: è possibile che solo una utilità possa portare tanta ricchezza a spostarsi verso le attese di un prossimo bisognoso? Tutto ciò deve farci meditare fino a trovare una modalità nuova e disinteressata per occuparci sempre più e con entusiasmo di quanto accade nel fondo vicino al nostro che potrebbe da solo un giorno anche essere il nostro.

 

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