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Opinioni

LA POLITICA DELLE SGUAIATEZZE

VINCENZO CIARAFFA - 07/01/2012

Probabilmente noi italiani, per farcene un alibi morale, amiamo pensare che certe manifestazioni di degrado semantico – istituzionale siano cominciate con la comparsa sulla scena politica nazionale della Lega, ma non è così: tale degrado ha origini molto più antiche (ed illustri) del partito di Bossi. Lo stesso padre della lingua italiana, Dante Alighieri, nella Divina Commedia presentò un personaggio della seconda bolgia dell’Inferno con due versi che lasciano poco spazio di manovra per accomodanti interpretazioni: “Vidi col capo sì di merda lordo/che non parea s’era laico o cherco”. Non parliamo, poi, della prosa sguaiata del contemporaneo di Dante, Cecco Angiolieri. Oppure ancora i “padri della Patria”: Cavour accostò il nome del suo re, Vittorio Emanuele II, a quello di sterco, e Garibaldi definì il papa Pio IX “un metro cubo di letame”. Il partigiano Sandro Pertini, il presidente più amato dagli italiani, nel 1946, nel bel mezzo dell’incandescente competizione referendaria Monarchia – Repubblica, se ne andò sotto il palazzo dei Conti Bonacossa di Milano a urlare ingiurie contro il principe ereditario Umberto I, che vi s’intratteneva a cena. E, giacché c’erano, Pertini e i suoi compagni pensarono bene di scaricare le proprie armi sulle imposte chiuse del palazzo.

Quando parliamo della Costituzione e dei cosiddetti padri costituenti, lo facciamo con religioso rispetto, eppure la assise che la scrissero, di religioso ebbero poco. Basti pensare che il 2 maggio del 1947, all’indomani della strage di Portella della Ginestra, alcuni “padri costituenti” si affrontarono a suon di turpiloqui, ai quali seguì una poco ieratica scazzottata nei saloni di palazzo Montecitorio. Come se non bastasse, il 4 dicembre del 1952, il deputato comunista Giancarlo Pajetta, per evitare di essere fermato dai commessi della Camera, camminò letteralmente sui banchi del Parlamento per andare a picchiare i membri del governo. Per una questione di decenza, poi, bisogna astenersi dal riportare la frase con la quale un politico democristiano di rango e ministro della Sanità, Carlo Donat Cattin, definì l’AIDS. Pertanto, dobbiamo avere l’onestà di ammettere che l’uso corrente della parolaccia in politica e il degrado delle istituzioni non possono essere attribuiti a Bossi e ai suoi seguaci.

A Bossi, semmai, spetta la primogenitura dell’uso sistematico della parolaccia come metodo di confronto politico, metodo che tende al malcelato obiettivo di sfasciare ciò che resta delle istituzioni dello Stato unitario. Obiettivo, in verità, maldestramente perseguito. Ad esempio, dare del “terùn” al Capo dello Stato, dei lecchini ai giornalisti, del ladro a un politico non soltanto è irriguardoso per le persone interessate, ma è anche auto-castrante, perché finisce col riunire tutte quelle forze (e potentati) che si oppongono al federalismo. D’altronde, se avessero capacità di autocritica, i dirigenti leghisti si sarebbero accorti che una tale agglomerazione è già avvenuta: il governo Monti ne è un esempio. A non voler essere bacchettoni e ipocriti per calcolo, si può dire che anche le intemperanze lessicali dei leghisti potrebbero trovare spazio nella dialettica di una democrazia solida e matura in tempi normali. Tuttavia, i leghisti dovrebbero sforzarsi di capire che un “tàchete al tram” agli inizi degli anni Novanta è diverso da un “terùn” affibbiato al Capo dello Stato nel pieno della più grave crisi economica, politica e morale che abbia colpito il nostro Paese dall’8 settembre del 1943 a oggi. Pertanto, sarebbe saggio non andare a soffiare sul fuoco delle tensioni sociali, brodo di coltura di un terrorismo anarchico di difficile individuazione. La storia del nostro Paese, infatti, insegna che dalle bombe verbali a quelle reali il passo è tremendamente breve, come dimostrano gli attentati dei giorni scorsi alle agenzie Equitalia di Foggia, Modena e Torino. Del clima incandescente che incombe, si è detto preoccupato anche il presidente della CEI, cardinale Angelo Bagnasco: “A forza di seminare vento si raccoglie tempesta. La tempesta della sfiducia, del tutti contro tutti, della rabbia sorda ma che può scoppiare”.

E se la rabbia dovesse per davvero scoppiare, v’è il concreto rischio che il Paese vada in cocci. Perciò chi mira a suddividere l’Italia in Regioni Federate, dovrebbe evitare di gettare benzina sul fuoco, altrimenti gli rimarranno soltanto i cocci da suddividere, e con quelli nessuno sarebbe capace di costruire il Federalismo.

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