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Spettacoli

DINANZI ALLA TV DEI MITI E NELLA VITA

FRANCESCO SPATOLA - 19/12/2014

tvIl clima natalizio è propizio per le narrazioni ideali e idealizzanti; per i sogni utopici e le mitizzazioni. Tanto più per chi ami passare del tempo davanti alla televisione, mito per eccellenza nell’epoca della comunicazione globale e generatrice continua di miti, grazie alla combinazione tra apparenza iperrealistica, sincronica e scintillante di eventi e modelli di vita spettacolarizzati sullo schermo e distanza spazio-temporale tra spettacolo televisivo e spettatore, che favorisce le proiezioni immaginative e il pensiero desiderante, e con eclatanti effetti speciali fabbrica artifici e illusioni.

Non che la realtà vissuta, lontano dalla Tv non abbondi di occasioni mitiche, giacché il pensiero desiderante è all’opera giorno e notte, nei sogni e nella pratica quotidiana, ma quella “scatola magica”, che nella sua domestica e contemporanea comodità ha finito per sostituire la stanza notturna, l’oscuro grembo materno delle sale cinematografiche in via di sparizione, quello schermo casalingo è un vulcano inesauribile di lave mitiche, ancora fumanti e fiammeggianti o solidificate e compatte.

Provare per credere. Ad esempio, il 7 dicembre, giorno di Sant’Ambrogio: trascorrere la domenica in Tv da teledipendente critico, e passato qualche giorno tentar di rifletterci sopra a mente fredda. Quanti miti si contano?

Prima della maratona al piccolo schermo, alle 16, l’incanto contemplativo alla chiesa di Biumo Inferiore, con la voce della soprano russa Elena Tarvid dedicata a Maria, ascolto e meditazione alla vigilia dell’Immacolata. Musica evocativa, che sgorga dal profondo interiore a manifestare l’anima femminile ch’è in Dio, non toccata dal rammarico per la poca partecipazione popolare e la persistente voga varesina di vivere ciascuno la propria nicchia, qui parrocchiale, indifferenti all’altrui proposte e facendosi pure concorrenza interna: alla stessa ora, concerto per organo alla Basilica di San Vittore, l’ideale per promuovere la musica sacra fra fedeli e cittadini. Coordinarsi tra attori della stessa scena, non far doppioni, promuover sinergie ad ampliar la gamma dell’offerta culturale in città, mai? Resterà pur sempre un mito, un sogno irragiungibile?

Poi, di corsa, a casa per non perdersi su Rai5 alle 17.30 il “Fidelio” di Beethoven dalla Scala, che la Tv-Servizio pubblico trasmette con dovizia di dettagli e comfort visivo-acustico, davvero facendoti sedere in prima fila e senza il fastidio dal palco scaligero di sentir l’orchestra prevalere sui cantanti e trasformar le voci in accompagnamento strumentale. Qui si vede-sente tutto, quasi entrando in scena, nel mito consolante dell’amore coniugale che combatte con coraggio le ingiustizie, genera solidarietà, libera dalle catene e alla fine vince sul male. Un lieto fine che non è certo da commedia, che giunge a conclusione di un dramma protoromantico di ambiente carcerario e che si stacca dalla tradizione operistica sia per l’eroe al femminile sia per la mancanza di fine tragica indistricabilmente connessa al romanticismo ottocentesco. E orchestra e voci splendide tra nitore settecentesco e intensità romantica, in un contesto spiazzante di fabbrica dismessa fine Novecento in veste di carcere, con asse e ferro da stiro, biancheria stesa, interpreti coro e figuranti da centro d’accoglienza per migranti, tutto jeans salopettes eskimi e zuccotti passamontagna…

Un bel contrasto, per un’attualizzazione molto discutibile di un’opera di finzione, con un soggetto tratto da un fatto vero, scritto in Francia durante il Terrore, anticipato al Seicento e spostato in Spagna dall’autore tedesco del libretto, trasposto nell’Italia dei profughi di Lampedusa da una regista inglese di drammi shakespeariani, avvalendosi di un’allestitrice a sua volta inglese e che pensa ai film proletari di Ken Loach.

Molti altri miti s’intrecciano nella messinscena, il più rilevante è quello della condivisione della cattiva sorte dei derelitti, che sta a cuore alla buona coscienza politicamente corretta dei ricchi spettatori presenti in teatro, tra smoking gioielli e mises d’alta moda. Il mix tra pauperismo e galà piace al pubblico in sala perché assolve da ogni rischio di pudore per il lusso ostentato, ma non sembra né adeguato né sufficiente a colmare il vuoto di secoli tra opera e realtà. Il valore ideale dell’opera è bensì eterno, ma strettamente intrecciato alla dimensione storica in cui l’opera è nata. E la messinscena dovrebbe rispettare e tradurre l’uno e l’altra, come avviene nei casi migliori in cui il dato storico compare nei costumi, stilizzati ma riferibili al tempo, e l’universalità dei valori in gioco è conseguita con l’ambientazione astratta, atemporale, allusiva.

Il verismo popolaresco non paga, appaga solo la presunzione di contemporaneità dei registi a la page e il conformismo progressista. E, con i troppo facili suggerimenti simbolici, toglie allo spettatore la fatica dell’elaborazione critica e dell’attualizzazione personale, esistenziale, di ciò che sente e vede nello spettacolo: una ricezione superficiale di messaggi stereotipati si sostituisce all’interiorizzazione autentica dei contenuti ideali, spirituali, artistici e culturali dell’opera e al lavorio di concreta traduzione nella realtà individuale e collettiva.

Come non misurare la distanza tra l’idealità beethoveniana di coraggio, amore, giustizia e verità di ieri, con la complessità economica, sociale, culturale delle masse immigrate in Europa da Terzo-Quarto Mondo e con il conflitto tra sicurezza e promozione sociale che affligge il pianeta-carceri oggi? Il miglior commento alla versione scaligera del “Fidelio” si è sentito dal detenuto del carcere di San Vittore, dove la trasmissione era su grande schermo, intervistato come “nota di colore” nella diretta di Rai5: “Musica magnifica, ma messinscena miserevole, sembrava sponsorizzata dalla Caritas!”. Ovvero, come sconvolgere il mito dell’eguaglianza con la realtà della differenza.

Ed ecco in successione serale la seconda puntata del “Ritorno di Ulisse” del regista francese Stephan Giusti: deludente la prima, di soli antefatti all’arrivo dell’eroe, si sperava nel rialzo di tensione ed interesse col suo catapultarsi in scena. Una sfida coraggiosa o tracotante, quella del canale culturale franco-tedesco Arte, in coproduzione portoghese e con Rai Fiction? Spiace per un attore come Alessio Boni, che aveva dichiarato di sentirsi tremare le vene ai polsi al pensiero del personaggio da affrontare ma di non aver saputo resistere dopo aver letto la sceneggiatura; neppure lui riesce ad alzare il tono di un prodotto assolutamente incommensurabile con quello del 1968 di Franco Rossi.

Un abisso di qualità divide il serial di oggi dal precedente. Anche qui il mito dell’attualizzazione a ogni costo gioca brutti scherzi, tanto più quanto più sembrerebbe voler eliminare lo spessore mitico del racconto per portarsi a una dimensione realistica: ricostruzione al computer dell’abitato di Itaca, nessuna divinità né mostri in scena, conflitti tra i personaggi e linguaggio che riecheggiano le cronache Tv e i gerghi giovanili contemporanei, abiti sobri dimessi e comuni, Omero giovane scriba-cronista sempre sul pezzo, profluvi di sangue e gole tagliate da action movie che neanche l’Isis sui mass-media, indovini consci dei loro trucchi e viscere per vaticini in verosimiglianza da macellai, schiavi al lavoro negli uliveti a scuotere i rami e far cadere le olive, arco teso da Ulisse per turgore di muscoli senza “aiutini” di Athena, che manco si sogna di tramutarsi nel Mentore forzuto che fa il gladiatore, e Menelao che vien da Sparta non per amicizia ma per calcolo, a guadagnare terre, ed umiliando e punendo incessantemente Elena per averlo disonorato… Mentre gli dei son solo statue mute cui si offrono amuleti e fiori…

Eppure quanto più realistica, a restituire lo spirito dell’epoca e farci comprendere il senso del racconto, la versione di Rossi così intrisa di mito, con le divinità che partecipano passo passo alle storie degli uomini anche se in versione astratta di statua fissa di cui senti la voce. Con il linguaggio poeticamente sacrale pure se parla del quotidiano. Con le case di Laerte che sembrano un villaggetto della Sicilia interna. Con gli abiti gonfi di simbolismo di status, drappeggi fastosi di arcaico splendore. Con il chiarore ovunque luminoso delle dimore eterne.

Il racconto di oggi vuole riprendere con “estrose” variazioni tutto quanto successo dopo il ritorno a Itaca, moltiplicando gli scontri ed argomentando di un Ulisse furioso, sospettoso, violento, geloso, ipersuscettibile. La vendetta regna sovrana, e appare come il sentimento dominante di una scena filmica dove le ricostruzioni dei paesaggi al computer assumono il tono livido dei film fantasy da “Signore degli anelli”, la stessa dei fumettacci tipo Scorpio o Lancio Story. Pur di intrigare il grande pubblico, si rasenta la serialità per coatti. E lo stile alla Luc Besson “de noantri” del regista Giusti non sa nemmeno tenere il ritmo, sprofonda in lente sequenze di musi muti e corpi fissi, che non richiamano certo alla pregnanza statuaria dell’Odissea di Franco Rossi: dove insistono pause e silenzi, là c’era attesa e stupore, qui la pura noia. Qui il mito dell’avventura realistica produce il ripetersi interminabile e compulsivo dei combattimenti fini a se stessi, là l’avventura atemporale del mito produceva sussulti di difficile ma consapevole pace.

Non serve aspettare le ultime due puntate, per confermare la desolazione delle prime. Non si troverà certo la sospirata armonia del finale dell’Odissea di Rossi, che riporta la mirabile traduzione di Rosa Calzecchi Onesti: “Diamo l’oblio” disse Athena, “Diamo l’oblio e la pace” disse il padre Zeus. E ai parenti dei pretendenti in armi, dopo aver convinto un riluttante Ulisse, Mentore-Athena: “Altro massacro non serve, non serve altro sangue. Lo dico anche a voi. Non serve altro sangue. Sia pace tra voi. Non serve altro sangue. Offrite riparazioni agli offesi e vivete in pace. Vivete in pace tra voi.” Posate da tutti le armi, Ulisse che torna da Penelope ne affronta l’orgoglio e l’amore con occhi limpidi, consapevole del vaticinio di Tiresia sul suo ultimo destino ancora per mare, finché non troverà terra senz’acqua in cui piantare il remo, per finire i suoi giorni nuovamente a casa in serena vecchiezza. “Disse, e ascoltava la dea. Poi se ne andò verso l’Olimpo dove, dicono, è la sede serena degli dei. Non da venti è squassata, mai dalla pioggia è bagnata, non cade la neve ma l’etere sempre si stende privo di nubi. Candida scorre la luce”. Questa l’odissea umana che riconduce a noi stessi, di oggi e di sempre, avendo Dante nel cuore: “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”, dove il mito è l’ideale incorruttibile.

Nel pieno dei commenti mentali, finisce anche “Il ritorno di Ulisse”, e a notte attacca lo Speciale Tg1 sulle meraviglie del cervello umano nella nuova visione delle neuroscienze, specie applicata all’etica. Sorprendente per contenuti ed effetti speciali di presentazione, l’esposizione delle basi biologiche della coscienza e delle possibilità di condizionamento del pensiero tende a sconvolgere le idee codificate sull’io e a mettere in crisi quelle sull’anima e la responsabilità personale.

Basta pensiero mitico! Tutto sembra riconducibile alla chimica neuronale, e l’applicazione giudiziaria anche in Italia sembra sostituire ai pregiudizi progressisti, per cui è sempre colpa della società, nuove verità per cui dipende tutto da malfunzionamenti cerebrali. E la razionalità coincide con la fisiologia cerebrale, che stima il presente per apprendimento dal passato e beneficia per il futuro di orientamenti fiduciari, comprese le fedi religiose, che consentono di sperare contro ogni speranza e di produrre benessere sia al cervello sia all’organismo in genere. Nuove conciliazioni tra fede e ragione sembrano imporsi: la questione ormai è tra fede e salute, fede e fisiologia neuronale…

Ma non sarà l’ultimo mito, qui nel senso d’illusione consolatoria, proiezione totalizzante e semplicistica su alcuni dati sperimentali? I conflitti che nel mondo reale agitano popoli e nazioni, i contrasti d’interesse planetario, le differenza d’interpretazione su base culturale e sociale, l’angoscia del morire personale e la compulsione a dare la morte agli altri con la criminalità e la guerra, il desiderio di giustizia e quindi di vivere con qualità tutti insieme, dove e come trovano spiegazione su base neuronale? L’etica funziona, sembrerebbe, ma perché fallisce così terribilmente su scala planetaria? Lo Speciale Tg1 si ferma agli spot luminescenti, non riesce a illuminare il quadro.

È tardi e bisogna spegnere, troppi miti in Tv, e anche nella vita reale; ma non se ne può fare a meno. Davanti agli occhi intorpiditi nella stanza raccolta e silenziosa, sino a Natale e poi all’Epifania, il presepio che s’accende a intermittenza illumina l’armonia rappresentativa di un piccolo paesaggio di pace, bellezza e giustizia tra le genti. Immagini di persone e natura nel sereno dello spirito, frammento di mondo finito che allude all’infinito, briciola di spazio concluso e simbolico, che trascende ciò che appare. Respira del racconto di realtà dal censimento di Tiberio Augusto ai vangeli sinottici, ai cronisti antichi… – frammisto alle impronte mitiche – il cammino dei Re Magi dietro la brillante stella… E alla fiducia nel senso profondo del racconto stesso, a fare memoria di dove siamo e desideravamo essere, a ispirarci per dove andremo e vorremmo poter andare. Oltre il mito.

 

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