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Politica

LA CITTÀ CHE POTEVA ESSERE ALTRO

LUISA OPRANDI - 05/06/2015

torrecivica

bandiera ammainata sulla torre civica?

Quattro anni fa, di questi tempi, la città capoluogo andava alle elezioni e gli occhi dei due schieramenti (centrodestra e centrosinistra) che si contendevano al ballottaggio l’amministrazione della città erano puntati al Piano di Governo del Territorio.

Al di là della necessità della sua adozione (con la legge regionale 12 del 2005 si prevedeva che ogni comune si dotasse del PGT entro marzo 2009, poi, con successiva proroga, la data ultima veniva fissata al 30 giugno 2014), il Piano raccoglie infatti l’idea di città da costruire, il percorso strategico dentro il quale incanalare l’esistente in prospettiva del miglioramento futuro, il paradigma valoriale attorno al quale consolidare il senso di comunità e di appartenenza.

È infatti uno strumento urbanistico che implica una pianificazione del territorio comunale ad ampio spettro, coinvolgendo l’amministrazione in analisi ambientali e geologiche, infrastrutturali e viabilistiche, economico-sociali, culturali e demografiche. Ma definisce anche le strutture pubbliche e i servizi di cui la città necessita a partire dalla prospettiva di sviluppo demografico ed infine regolamenta la destinazione delle aree del territorio.

Parlare di PGT significava infatti partire dall’esistente per pensare il futuro, mettendo al centro la persona, la collettività. Che città siamo, quali prospettive di futuro ci diamo, quale città vogliamo diventare? A deciderlo non può essere che la comunità civile, partecipe e propositiva. Chi amministra ne diventa infatti il portavoce che orienta il desiderio comune in scelte fattibili e supportabili a livello progettuale e finanziario.

Quattro anni fa questo avrebbe potuto essere il percorso condiviso, praticabile ed attuabile. Non certo una chimera, bensì una grossa opportunità capace di rafforzare, attraverso il dialogo costruttivo, anche la dimensione dell’ascolto, della raccolta di idee, della messa in gioco di relazioni tra cittadino e mondo della politica trasformando così in meglio non solo il volto della città, ma anche il senso di cittadinanza attiva.

Questa era la grande sfida che le elezioni di quattro anni fa portavano con sé.

Sfida disattesa perché ai cittadini poco o niente è restato del lungo processo di elaborazione del Piano, se non il vago ricordo di qualche articolo di giornale che scandiva il ritmo della battaglia politica e la necessità di formare fronti di opposizione civica mal digeriti a livello amministrativo. E sfida disattesa nel momento in cui il volto della città che è uscito dal PGT (approvato in seduta fiume nella notte del 13 giugno dello scorso anno, dopo una maratona di incontri di commissioni e consigli) ha consegnato la città alla cementificazione, ha ignorato le osservazioni di privati, gruppi civici e associazioni volte a eliminare le storture che la prima fase (quella della adozione del piano avvenuta nel dicembre del 2013) aveva proposto (i parcheggi di Villa Augusta, di Villa Mylius e della Prima cappella, la destinazione dell’ex Malerba o l’ampliamento dell’Iper…), ha finto di non vedere il volto demografico che Varese ha assunto negli ultimi anni, mantenendo aperta la diga dell’esodo di giovani coppie e cittadini meno abbienti verso i comuni limitrofi. E il tema dell’housing sociale, con la proposta PD di costruzione in città di mini appartamenti destinati agli anziani, è passata solo grazie al frazionamento della maggioranza, che, per l’occasione, ha votato in ordine sparso e forse sulla scia di ribaltoni politici all’epoca già in atto.

Già perché tra banchi di Palazzo Estense in questi quattro anni parecchio è cambiato: contrariamente alle concomitanti elezioni nel 2011 a Gallarate e Malnate, dove Lega e PDL avevano corso separatamente, Varese era andata alle elezioni con un centrosinistra (PD, SEL, IDV e lista civica Varese&Luisa) fronteggiato dal solido connubio di berlusconiani e leghisti. Asse al quale, in fase di ballottaggio, si era apparentata anche l’UDC.

L’amministrazione attuale era però uscita dalla tornata elettorale senza la vittoria schiacciante cui il centrodestra si era comodamente abituato negli ultimi due decenni, passando prima dal ballottaggio e in seguito vincendo con un 53,89%, margine al di sotto dell’oltre 56% cui avrebbe dovuto portare la somma dei voti di PDL, Lega e UDC.

Anche questa la probabile ragione per cui il flirt con l’UDC è in realtà stato tale solo a parole e i due consiglieri dell’Unione di centro, fin da subito, si sono collocati all’opposizione, senza comunque mai convincere del tutto gli altri interlocutori politici.

Le scosse nella maggioranza hanno quindi fatto traballare non poco le sedie di Palazzo: la prima si è verificata fin da subito quando si è reso necessario, norma alla mano, assegnare almeno un assessorato ad una quota rosa decidendo chi tra Lega e PDL avrebbe dovuto rinunciare ad un proprio uomo. Quindi è toccato al florilegio di ripetute esternazioni pubbliche di un assessore far mandar giù alla maggioranza bocconi amari, fino all’atto finale mesi or sono della sua sostituzione. Ma il colpo di grazia al centrodestra lo ha inferto il sistema delle alleanze in occasione delle elezioni per la provincia: se prima infatti c’erano state delle avvisaglie sulla difficoltà di tenuta della maggioranza, quello accaduto dopo le provinciali è stato un vero e proprio terremoto. Il layout della sala consiliare si è modificato drasticamente: passaggio dell’UDC sui banchi della maggioranza con annessa risalita di uno dei suoi due consiglieri al ruolo di vicesindaco, allontanamento del vicesindaco allora in carica, fuoriuscita dal NCD di un consigliere e un assessore e conseguente spostamento dei restanti consiglieri del Nuovo Centrodestra tra i banchi dell’opposizione.

Quadro reso altresì desolante dalla presenza di una sola donna tra i consiglieri e una sola donna a ricoprire un incarico assessorile. Se nel primo caso le “colpe” possono anche essere attribuite parzialmente alla casualità connaturata a qualsiasi tornata elettorale, nel secondo si tratta senza ombra di dubbio di una scelta partitica e culturale.

Varese avrebbe potuto infatti essere una città amministrata da una elevata percentuale di donne in giunta, avrebbe potuto esprimere nelle sedi di governo pubblico maggiore rispetto della parità di genere e rispondere con equilibrio al bisogno sociale, culturale, economico e strategico della conciliazione dei tempi della città. Tema che continua a restare argomento sconosciuto e impraticato.

Ma soprattutto è risultata assente la volontà di improntare il rapporto con la città in termini di trasparente rendicontazione degli obiettivi, delle strategie, delle risorse impiegate per raggiungerli, dei risultati conseguiti e delle ricadute delle azioni di governo. Il “bilancio sociale” avrebbe rappresentato una innovativa modalità di dialogo con i cittadini, uno strumento “etico” in grado di stabilire e consolidare nel tempo la reciproca fiducia e la normalità della trasparenza.

Varese avrebbe potuto essere altro proprio partendo da questa fondamentale scelta di governo e di stile. Perché avrebbe significato perseguire la strada del “raccontare” il percorso amministrativo nel suo svolgersi e scegliere assieme ai cittadini le strade per il miglioramento.

(1-continua)

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