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Editoriale

E ADESSO?

ENRICO BIGLI - 03/07/2015

greciaLa possibilità che la Grecia e i creditori possano trovare un accordo è oramai del tutto tramontata.

All’inizio della settimana l’offerta del governo Tsipras di venire incontro ad alcune richieste della Troika (aumento parziale Iva e dell’età pensionabile, seppur in tempi lunghi) per recuperare i 400 milioni di differenza tra le parti aveva fatto credere che fosse possibile giungere a una soluzione.

Invece il risultato è stato esattamente l’opposto.

Abbiamo infatti assistito a un irrigidimento delle posizioni dei creditori. Il primo, tra loro, è stato il Fmi, poi, il 26 giugno, è stato il turno dell’Eurogruppo. Perché tale irrigidimento, quando si era quasi vicino al traguardo di un accordo economico utile a tutti?

La risposta è molto semplice. La trattativa in corso da quando Syriza ha vinto le elezioni in Grecia non è mai stata una trattativa economica, finalizzata a un accordo che consentisse alla stessa Grecia di rimanere, ufficialmente, all’interno dell’Eurozona e ai creditori di avere la garanzia che gli interessi su un debito venissero pagati nei tempi prestabiliti. È stata invece una trattativa squisitamente politica.

Non a caso si svolgeva contemporaneamente una sorta di trattativa parallela tra la Merkel, Samaras e esponenti del Pasok. Una sorta di preparazione di colpo di stato seppure soft in nome dell’obbligo di adesione al mainstream economico.

Il Fmi è stato il primo a dichiarare che le proposte della Grecia erano insufficienti, chiedendo di eliminare quella tassa di solidarietà sui redditi più alti e sui profitti delle grandi imprese se superiori ai 500.000 euro, che, secondo il piano greco, avrebbe dovuto portare nelle casse statali circa 200 milioni di euro. Ciò che ha maggiormente irritato il Fondo è stato il mettere in discussione la dottrina (assai dubbia, come più volte empiricamente dimostrato) che gli aumenti delle tasse sarebbero dannosi per la crescita mentre le riduzioni di spesa pubblica la favorirebbero.

Il Wall Street Journal ci ha informato sui termini della trattativa. L’FMI ha proposto una serie di rettifiche di segno opposto e impossibili da accettare da parte greca. Oltre all’eliminazione della tassa sui ricchi, si voleva, infatti, imporre alla Grecia l’obbligo di garantire un saldo primario crescente negli anni sino al 3%, un aumento generalizzato dell’Iva al 23%, divieto di taglio alle spese militari, il tetto dell’età pensionabile a 67 anni entro il 2025 e non il 2037 come richiesto dalla Grecia, accompagnato da un’ulteriore riduzione del livello delle pensioni.

In assenza di assenso del governo Tzipras su tali snodi, nel caso in cui la Grecia non fosse risultata in grado di versare la tranche di 1, 6 miliardi di euro nelle sue casse entro il 30 giugno, immediatamente il Fondo avrebbe, già il giorno dopo, avviato la pratica di default, contraddicendo, con ciò, le proprie stesse regole. Queste, infatti, prevedono, in caso di mancato rispetto dei tempi di pagamento, la proroga di un mese e poi altri tre mesi prima di concordare l’eventuale dichiarazione di default.

Come riportato anche su La Voce.info, sito notoriamente rigido sul pareggio di bilancio e sulla necessità di tenere i conti pubblici in ordine, la Grecia ha eseguito molti dei compiti che i creditori le avevano richiesto di portare a termine. Il deficit pubblico è stato portato dal 15, 6 per cento del 2009 al 3, 5 nel 2014: si tratta del più consistente aggiustamento dell’intera Europa. Il surplus primario (al netto degli interessi sul debito), corretto in funzione del ciclo congiunturale, supera il 5 per cento del Pil: il più alto d’Europa (l’Italia è seconda).

Tutto ciò è avvenuto a costi esorbitanti: il Pil, nello stesso periodo, si è ridotto di 20 punti percentuali (contro una previsione del Fmi di una riduzione del 5 per cento nei primi due anni e un successivo ritorno, nel 2014, ai livelli del 2009 quasi divertenti le accuse del Fmi a Varoufakis di avanzare stime economiche non attendibili. Abbiamo assistito a una riduzione dei dipendenti pubblici del 25 per cento (255 mila unità); a una riduzione dei salari reali senza precedenti, dal momento che i salari nominali sono crollati ma i prezzi no; a una riforma delle pensioni che ha previsto di aumentare gradualmente l’età di pensionamento da 62 a 65 e poi a 67 anni per tutti, riduzione delle pensioni in 5 anni di oltre il 40% (come risulta dall’Ageing Report 2015 della Commissione Europea).

Si tratta proprio di quelle “riforme strutturali” più volte richieste come necessarie e che hanno portato la Grecia dal centonovesimo al sessantunesimo posto nel ranking del Doing Business Report tra 2010 e 2015 (l’Italia è al cinquantaseiesimo posto): una classifica che indica gli stati più virtuosi per favorire la profittabilità delle imprese.

La medicina fatta ingoiare ai greci non solo è stata assai amara, ma, quel che è ancora più grave, ha peggiorato la salute del paziente: tracollo del Pil, aumento dell’incidenza della povertà assoluta e relativa, insolvenza finanziaria con i creditori.

L’Eurogruppo non era sicuramente dispiaciuto dalla rigidità del Fmi se questa poteva essere utile a portare la Grecia a più miti consigli. Soprattutto non erano dispiaciute le oligarchie spagnole e italiane (indecise tra una presa di posizione nettamente contraria alla Grecia nei fatti e un ipocrita appoggio a parole ma opposto nei fatti – posizione tipica del governo italiano di Renzi).

Ma quando Merkel e Hollande invitanoTsipras a accettare la “generosa offerta” dei creditori di posticipare il tutto di sei mesi, accettando la tranche di finanziamento di 7, 2 miliardi ma impegnandosi ad accogliere il contenuto del piano del Fmi “senza condizioni”, si capisce che non ci sono più margini di trattativa.

A ciò si aggiunge, in queste ore, lo schiaffo politico di Tsipras di indire per il prossimo 5 luglio un referendum popolare per approvare o respingere le proposte dei creditori. È la goccia che fa traboccare il vaso nei rapporti tesi tra le parti. E sta tutta qui la natura squisitamente politica che è stata al centro della trattativa di questi mesi e che, inevitabilmente, ne ha condizionato la conclusione: la Grecia esprime comunque la volontà di rimettere in discussione la politica di austerity.

E ora?

In queste ore, giornalisti, esperti, tecnici si sbizzarriscono nel provare a individuare lo scenario di ciò che porrebbe accadere. Non tanto alla Grecia, delle cui sorti pochi si interessano, ma dei possibile feedback collaterali che potrebbero investire in primo luogo l’Europa. Tecnicamente, la Grecia entra in default. Il Fmi non potrà far altro che riconoscere ciò. Ciò tuttavia non significa che automaticamente la Grecia fuoriesca dalla zona Euro. Al momento attuale non c’è un regolamento giuridico chiaro sull’uscita di un paese dall’Euro. Tale evenienza è possibile solo se un paese decide di tornare alla propria moneta nazionale. In altre parole, nessun paese dell’area Euro può essere cacciato contro la sua volontà.

Occorrerebbe una modifica dei Trattati Europei che implica una procedura molto complessa e lunga e non sempre chiara. Ricorrere al diritto internazionale può essere l’unica possibilità per “cacciare” un paese fuori dall’Euro o dall’Unione Europea, contro la sua volontà. Ma, certo, imbastire un procedimento giuridico in tal senso non è facile, soprattutto se si considera che la violazione del limite del 3% deficit/PIL (che è il motivo principale per giustificare la volontà di disdire unilateralmente tali accordi) è stata compiuta da tutti i paesi, compresa la Germania dal 2002 al 2005 e nel 2009-2010.

Ne consegue che la Grecia, piaccia o non piaccia, se lo vuole (così come sempre dichiarato dall’attuale governo di Syriza), rimarrà all’interno dell’area Euro e non tornerà alla dracma. Ne consegue che il possibile esercizio del diritto al default non può essere limitato al solo paese in questione ma interessa tutti i paesi dell’Eurozona. Di ciò l’Eurogruppo è perfettamente cosciente (il Grexit, nonostante quanto scritto dai giornali, non è oggi all’ordine del giorno) e ne sono coscienti soprattutto i paesi più rigidi (Germania e Spagna in testa). Ma il “diritto di default” è ciò che più terrorizza i mercati. Nell’ultima settimana, la Bce ha ritoccato all’insù la disponibilità di liquidità per la Banca Centrale greca sino a portarla a 89 miliardi di Euro e, resistendo alle pressioni dei falchi, il 28 giugno Mario Draghi ha affermato che continuerà a fornire liquidità di ultima istanza alla Grecia, pur senza aumentarne il volume.

Solo azzerando la liquidità greca espressa in Euro si può obbligare la Grecia a uscire dall’Euro. Questa sembra essere la strategia dell’oligarchia europea, anche a costo di rinunciare agli interessi sul debito, rischiando un aumento dell’instabilità dei mercati finanziari europei i primi effetti si fanno sentire, con la decisione del governo greco di chiudere la Borsa di Atene e le banche elleniche per sei giorni. Ma di più, se non è nelle mani dei governi la possibilità di decidere se la Grecia può continuare a restare nell’euro anche se in default (potrebbero solo previo cambiamento dei trattati) ed è solo la BCE a poterlo determinare facendo venir meno la liquidità allora si pone un serio problema di mandato della BCE il cui compito principale è fornire la liquidità e un problema di democrazia, la BCE non è eletta da nessuno e per definizione deve restare autonoma dalla politica.

Un ritorno della Grecia alla dracma avrebbe risultati pesanti sulle condizioni di vita della popolazione, già duramente colpita in questi anni. Non solo perché la svalutazione della moneta ellenica avrebbe effetti inflazionistici che, anche se non elevatissimi, comunque ridurrebbe il già scarso potere d’acquisto dei redditi, soprattutto da lavoro. Ma, poiché la maggior parte del debito greco è detenuto in Euro, il pagamento degli interessi lieviterebbe di molto, favorendo un circolo vizioso senza fine.

Di più ne sapremo dopo il 5 luglio.

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