Widgetized Section

Go to Admin » Appearance » Widgets » and move Gabfire Widget: Social into that MastheadOverlay zone

Economia

TRA STAGNAZIONE E AUSTERITÀ

ENRICO BIGLI - 04/03/2016

austeritàOtto anni dopo l’inizio della crisi, nell’eurozona il reddito nazionale rimane al di sotto di quello pre- crisi; il debito, che l’austerità doveva ridurre, è aumentato; la disoccupazione, che era circa il 10 per cento nelle due aree, è scesa al di sotto del 5 per cento negli Stati Uniti, mentre ha continuato a crescere nell’eurozona, toccando punte estreme del 25 per cento in Grecia e Spagna.
L’evidenza del fallimento delle politiche praticate nell’eurozona è un dato di fatto. Che non è dimostrato solo dal confronto con gli Usa. Se, infatti, guardiamo all’interno dell’Unione europea, scopriamo che la Gran Bretagna, la Polonia e la Svezia, per citare tre paesi diversamente importanti, fanno registrare una crescita pari o superiore a quella americana. L’assurdità della politica imposta dall’asse Bruxelles – Berlino, non può dare adito a dubbi. In questo quadro, la situazione dell’Italia è nel confronto con i maggiori paesi dell’Ue la più sconcertante. Ha perduto il 9 per cento del prodotto interno lordo; la produzione industriale è diminuita di un quarto; la disoccupazione è raddoppiata, passando dal 6 al 13 per cento al culmine della crisi.
Un tentativo di uscire dalla trappola nella quale si è cacciata l’eurozona è stato fatto da Mario Draghi, con la decisione di salvare l’euro da un rischio di disintegrazione, facendo “qualsiasi cosa fosse necessaria”. In sostanza inondando di liquidità i mercati monetari. Una misura che se pure in ritardo, replicava la politica della Federal Reserve di Ben Bernanke. Ma l’analogia si ferma qui. L’abbondante liquidità consentita dalla Bce a tassi d’interesse vicino o al di sotto dello zero in termini reali avrebbe potuto incentivare gli investimenti pubblici per recuperare la crescita, fare da sponda agli investimenti privati, migliorare gli standard di efficienza del paese, combattere la disoccupazione di massa. Sarebbe stato ragionevole, ma è proibito: le regole della zona euro, infatti, impongono una chimerica marcia forzata verso il pareggio di bilancio. Non è possibile attuare una spesa di investimenti diretti alla crescita. E la mancanza di crescita aggrava gli squilibri della finanza pubblica. Un infernale circolo vizioso. Non sorprende che, al di là della retorica dell’ottimismo di facciata, Renzi si sia sentito in trappola. L’austerità è un macigno sulla crescita. Le riforme strutturali servono solo alla Confindustria e a guadagnare consensi a destra, ma non producono crescita. Col risultato di passare dopo la più lunga recessione della storia nazionale a una fase di sostanziale stagnazione.

In questo quadro deludente e allarmante, la ribellione di Renzi è spiegabile e, per molti versi, ragionevole. Il suo torto è di arrivare in ritardo. Il contenzioso con Bruxelles riguarda apparentemente qualche decimale di punto di maggiore disavanzo di bilancio. Ma se si trattasse solo di questo, un compromesso, come auspicato dal francese Moscovici, il commissario europeo per la politica economica, sarebbe alla fine praticabile.

Ma il vero problema non è questo. Ad aprile il governo deve presentare il programma di stabilità per il 2017 e il 2018. Il programma deve indicare le misure di bilancio per ridurre il disavanzo all’1,1 per cento del Pil l’anno prossimo e pervenire al pareggio strutturale nel 2018. Semplificando questo significa che, mentre l’attuale contenzioso con la Commissione europea riguarda tre miliardi di euro, per i prossimi due anni il governo dovrebbe programmare e attuare una riduzione del disavanzo di circa quaranta miliardi.
Come se non bastasse, è previsto un aumento dell’avanzo primario (la differenza fra entrate fiscali e spesa pubblica) dall’attuale 1,8 fino al 4,3 percento del Pil nel 2019, finalizzato alla riduzione del debito prevista dal Fiscal compact. Una missione impossibile. O politicamente suicida.
Il 2015 è stato un “annus horribilis” per i governi al servizio di Berlino. In una sequenza impressionante, prima ha perduto le elezioni Samaras in Grecia, poi Passos Coelho in Portogallo, infine Rajoy in Spagna. La politica dell’asse Berlino-Bruxelles si dimostra letale per i governi che gli sono fedeli.

Renzi è consapevole del rischio di fare la stessa fine, come dimostra in un’intervista al Financial Times appena dopo la sconfitta di Mariano Rajoy in Spagna: “Non so come siano andate le cose col mio amico Mariano – dice – ma è un fatto che i governi che si sono esposti in prima linea come fedeli alleati della politica del rigore senza crescita ne sono usciti sconfitti… È successo a Varsavia, sia pure in circostanze particolari, è successo ad Atene, ed è successo a Lisbona”.

In sostanza, Renzi teme di finire nella stessa trappola nella quale sono incappati i governi, non importa se di centrodestra o centro sinistra, fedeli alle politiche dell’eurozona. Tra l’altro, il 2017 è l’anno delle elezioni in Germania, e la posizione tedesca sarà, se possibile, ancora più rigida nei confronti dei satelliti che girano intorno al pianeta Germania.

I governi ribelli rischiano la sorte della Grecia, come ha dimostrato la durezza del ricatto esercitato in prima persona da Schäuble nei confronti del governo Tsipras: o la piena sottomissione ai vincoli imposti da Bruxelles (e Berlino), o l’uscita dall’eurozona. Un risultato, in ogni caso, provvisorio. In Grecia la situazione sociale è peggiorata come esito delle micidiali riforme imposte dalla rediviva Troika, e sono ripresi gli scioperi.

Ma il cambiamento appare inarrestabile. Il nuovo governo socialista portoghese si regge su una maggioranza che comprende due partiti anti-austerity, fra i quali il Partito comunista favorevole all’uscita dall’eurozona. In Spagna, la grande alleanza fra Psoe e Popolari, raccomandata da Berlino, si è dimostrata impraticabile. Pedro Sanchez, incaricato di formare il nuovo governo ha bisogno della partecipazione di Podemos: un’alleanza possibile solo sulla base di un programma anti-austerity. L’alternativa sono nuove elezioni in primavera.
La politica dell’eurozona, autoritaria quanto inefficace, ha provocato una profonda crisi nel funzionamento della democrazia. Il ruolo dei Parlamenti degli Stati membri è stato svuotato. Nel campo delle scelte economiche e sociali che definiscono per molti aspetti i diritti di cittadinanza e sono il sale della dialettica democratica, i governi sono sottoposti ai diktat imposti da una tecnocrazia priva di rappresentanza democratica. Agli Stati nazionali è di fatto impedita la formulazione e l’attuazione di politiche economiche e sociali basate sulle scelte democratiche espresse attraverso il voto dei cittadini. Le politiche sono subordinate al consenso preventivo di Bruxelles. Il voto popolare diventa un esercizio ridondante. Mentre i partiti e i movimenti di opposizione sono cumulativamente etichettati come “populisti” e anti-europei.

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

You must be logged in to post a comment Login