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Opinioni

QUESTA RAI MUMMIFICATA

VINCENZO CIARAFFA - 17/07/2015

raiLa nascita in sordina della televisione in Italia, nel 1954, avvenne nell’ambito di un paradosso: all’iniziale indifferenza del sistema di potere verso il nuovo mezzo di comunicazione la cui capacità persuasiva sulle masse probabilmente non aveva ancora afferrato, si sostituì un controllo assoluto, quasi da regime dittatoriale. Ciò si rese possibile essenzialmente per tre ragioni. La prima. Lo scarso spessore democratico degli italiani all’epoca ancora non del tutto appastati con la regola-cardine della democrazia, come la libertà di pensiero e di espressione. La seconda ragione. Eravamo in piena “guerra fredda” i cui riflessi pesavano moltissimo sui governi del tempo che erano prevalentemente a guida democristiana, cioè cattolica. Quei governi, infatti, avevano il compito di tenere sotto stretto controllo la struttura organizzativa della giovane azienda televisiva per non farla evolvere in senso modernista, in modo da non scontentare la Chiesa di papa Pio XII che aveva appena scomunicato i comunisti. Ciò anche perché la Chiesa era il principale serbatoio di voti della DC, il partito allora egemone. La terza ragione. Tener lontani dalla RAI i comunisti per non irritare gli alleati americani che ancora ci sfamavano col piano Marshall, anche se all’epoca quel provvido piano di aiuti non si chiamava già più così.

Si avvicinavano gli anni del centrosinistra e questo materializzò un altro paradosso perché a far entrare i socialisti prima e i comunisti poi in RAI fu proprio il partito che fin dagli inizi vi si era opposto: la Democrazia Cristiana. Questa, però, prima di aprire le porte ai socialisti e, poi, ai comunisti nell’ambito di un’abile politica di sottogoverno, blindò l’azienda nominandovi un direttore generale che di più fede cattolica non poteva essere, come il giornalista Ettore Bernabei che rimarrà a quel posto la bellezza di tredici anni. Bisogna dire che Bernabei interpretò al meglio il suo ruolo perché fece esattamente ciò che il sistema di potere che andava delineandosi gli chiedeva: tirar su un’azienda che fosse “morale”. Come dire terzomondista, populista, bigotta e millenarista, con un indirizzo che doveva contemporaneamente, essere evangelico e marxista e che, alla fine, si aprirà alla più becera lottizzazione politica dei partiti, in particolare a quella del PCI. Questo, peraltro, rispetto a tutti gli altri partiti, vantava una certa sensibilità culturale, che in realtà era un modo più raffinato per fare proseliti tra l’intellighenzia e incetta di posti nel sottopotere.

Ecco, fatta la tara sulle diverse sigle partitiche, sui mutati rapporti di forza e sull’evolversi dello scenario internazionale, la situazione della RAI di oggi è mummificata esattamente come ai tempi di Bernabei: un feudo dei partiti dove, in “modo bilanciato” entra una marea di giornalisti raccomandati, in quota a questo od a quello schieramento. Soltanto che, come sosteneva una battuta circolante nei corridoi di via Teulada, nella RAI del passato ogni tanto, per errore, entrava anche qualche giornalista capace. A differenza di oggidì.

Renzi, pur a capo di un assembramento politico che ha molto del centro sinistra d’infausta memoria, dice che tutto questo non va più bene, che bisogna cacciare via i partiti dalla RAI, sostituire il direttore generale con un amministratore delegato ed abolire il canone. La domanda è: perché Renzi vuol fare questa riforma se l’attuale sistema dell’informazione pubblica calza come una ciabatta usata al sistema di potere di cui lui è la massima espressione? Le risposte secondo noi potrebbero essere più di una e proveremo a fornirvene qualcuna.

Da quanto ci è dato di capire in questi giorni, con la riforma di Renzi l’amministratore delegato sostituirà la figura del direttore generale divenendo così il reale capo dell’azienda che, avendo la responsabilità gestionale diretta, potrà chiamare a collaborare in RAI chi gli pare e piace, esattamente come avveniva prima. Con meno lacciuoli però. Sì, perché nel modo immaginato dal premier si salterà a piè pari un passaggio: al governo basterà “saper scegliere” l’amministratore delegato e, così, il capo dell’esecutivo diverrà il vero direttore generale della RAI! Sicché i vistosi conflitti d’interessi contenuti nella legge Gasparri sembreranno un casto bacetto tra cugini. E queste fosche previsioni sull’ennesima riforma della RAI non fondano su di un nostro inveterato pessimismo ma sulle spiegazioni fornire dal premier in proposito: «… far uscire i partiti dalla RAI […] Il cda farà il cda e la Commissione di Vigilanza Parlamentare vigilerà […] I membri del cda saranno ridotti da 9 a 7: quattro scelti dalle Camere, uno dal governo e uno dall’assemblea dei dipendenti». Tradotto significa che i governi avranno il controllo sull’amministratore delegato, sul membro scelto dal governo stesso e sui 4 membri scelti dalle Camere, dove evidentemente, detengono la maggioranza. È una della lezione di autonomia e pluralismo della nuova RAI, non v’è che dire!

A proposito, infine, del canone, televisivo, siamo pressoché certi che Renzi lo abolirà per davvero, esattamente come Berlusconi abolì il bollo auto, ve lo ricordate? Infatti, non paghiamo più il bollo al governo ma alla Regione di appartenenza. Soltanto che adesso la tassa “abolita” si chiama in una altro modo.

Con tali presupposti, anche il più renziano degli italiani dovrà convenire che il nostro scetticismo sull’efficacia della riforma RAI vagheggiata dal Matteo nazionale ha radici molto antiche.

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