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Stili di Vita

LA FORZA DEL PUDORE

VALERIO CRUGNOLA - 02/10/2015

La Pudicizia Velata, di Antonio Corradini (1668-1752)

La Pudicizia Velata, di Antonio Corradini (1668-1752)

Vi è una sapienza millenaria nascosta nelle emozioni che rischiamo di disperdere. Il pudore è una di queste. Di più: quella sapienza indefinibile ha in sé una forza generatrice. Così non sarebbe stato se il pudore avesse riguardato solo la nudità e il controllo delle pulsioni sessuali. Nel pudore l’amor proprio – «io sono più del mio corpo» – si mescola alla paura – «Io temo tu voglia ridurmi a corpo, a cosa tua, cosa da fruire, cosa per te». Agostino lo associò al controllo dell’ira, non meno torbida e disordinata della concupiscenza. Nel non doversi mostrare totalmente, nel non volersi porre in primo piano ad ogni costo, l’esercizio del pudore collega la modestia e la timidezza all’umiltà. Delle filiazioni del pudore, l’umiltà è forse la virtù più alta. Negli anni ’80, quando prese vigore il «pensiero debole», si parlò addirittura di un «pudore della teoria», un atteggiamento di modestia che avrebbe dovuto proteggere la filosofia e il senso comune dalla pretenziosa «tentazione della verità». Il medesimo termine che evoca la disciplina dello sguardo è stato chiamato in causa per disciplinare la parola.

Nel ‘900 l’indagine sull’estendibilità del pudore oltre la sfera della sessualità ha preso le mosse da Max Scheler. Il grande fenomenologo cristiano distingue il pudore corporeo da quello spirituale, in nome dello scarto che corre tra i bisogni della vita corporea e le esigenze della vita psichica e affettiva. Il primo nasce dal conflitto tra gli istinti vitali e la coscienza di sé; il secondo dal conflitto tra le istanze della personalità e quelle della sfera vitale, che tende alla conservazione, al soddisfacimento e all’accrescimento. Più che una distanza, tra i due poli corre una tensione reciproca che mira a ricostruire un equilibrio tra istintualità e spiritualità. La persona vorrebbe travalicare la sfera contingente del «qui ed ora», che si manifesta nella forma del desiderio, ma si trova pur sempre invischiata in un ambito esistenziale contrassegnato dal limite ed esposto alla dipendenza dai bisogni del corpo. Il pudore attua così una sospensione delle spinte pulsionali provenienti dalla vita corporea, consentendo quella libertà di scelta che dà valore e autonomia all’individualità.

Per Scheler il pudore è un sentimento di difesa che recepisce e rifiuta il disconoscimento del nostro essere più proprio, perché vorrebbe che l’idealità si traducesse sempre nella dimensione effettuale senza però sperdersi nell’universale. Proprio il timore di smarrirsi nell’universale suscita l’angoscia individuale tipica del pudore. Vogliamo preservare tutto il nostro essere, non solo l’integrità fisica e psichica, e nel contempo non vogliamo tradire le nostre idealità appiattendoci sul nostro carattere finito. Per questo il pudore appartiene a suo avviso alla sfera dei sentimenti di sé, e rappresenta un continuo ritorno a se stessi, una forma di fedeltà a un sé che permane pur nella sua plasticità e nei suoi continui mutamenti. Icasticamente, il pudore viene così definito «un bel nascondimento del bello»: un nascondere [verbergen] per preservare [bergen], che mette ai margini il brutto.

La seconda metà del ‘900 ha opposto due scuole sulle origini del pudore: civilizzazione vs ominazione. La sociologia storica di Norbert Elias ha visto nel pudore un’interdizione interiorizzata che ha accelerato i processi di civilizzazione in Occidente; le pulsioni istintuali e le funzioni corporali vengono privatizzate, controllate e portate «dietro le quinte», mentre il divieto di mescolare intimità e vita di relazione, divenuto un’autocostrizione interiore e un’abitudine, acquista un potere che nessuna codificazione delle «buone maniere» può esercitare. L’antropologo Hans Peter Dürr vi ha visto invece una base culturale comune a ogni civiltà là dove esse, ciascuna nei propri modi, mirano a scindere l’umano dall’animalità originaria dissimulando la nudità e l’espletarsi di alcune attività naturali come la sessualità e l’evacuazione degli escrementi. Il pudore proteggerebbe non solo dalla vergogna, ma anzitutto dalla repulsione che tali attività suscitano in ogni essere umano.

Secondo Tagliapietra le due teorie non sono inconciliabili come appare a prima vista. Basta tenere distinta l’esistenza del pudore dalla sua espressione: la prima concerne una predeterminazione organica, la seconda una manifestazione propria delle diverse culture, l’una come le altre sottoposte a un’incessante dinamica di cambiamento. «Il pudore è una nozione interstiziale, una barra in movimento fra natura e cultura, corpo e anima, maschio e femmina, individuo e società, conscio e inconscio, esibizione e segreto. Eppure, il pudore come puro e semplice comportamento culturale si radica su un fondo oscuro, sull’impronta di un disagio imprecisato e imprecisabile che, pur indossandone le maschere, rimane sempre e in qualche modo al di là della cultura».

Oggi tendiamo a considerare il pudore un’emozione ibrida, insieme istintuale e «civilizzatrice», che regola alcune relazioni che intratteniamo con noi stessi, con l’altro, con gli altri. È al tempo stesso un elemento d’ordine e una forma di resistenza. Si tratta di un’allerta sempre vigile, di una sorta di intercapedine, di discontinuità, di ripiegamento difensivo eretto a protezione e a garanzia della nostra intimità e libertà, ma anche della riservatezza degli altri e della loro libertà. Nel porre un confine tacitamente non superabile che protegge, al punto da renderla sacra, una zona di assoluto rispetto, si instaurano due legittime istanze vitali: quella del riconoscimento e quella della tutela di sé dalle invadenze dell’altro, non necessariamente soltanto attraverso lo sguardo. Oltre quella soglia si situano la cura di sé, il sentirsi a casa, l’agio dell’abitare in se stessi.

Con le parole di Amleto, «io ho dentro ciò che non si mostra». Il pudore, ha scritto Georg Simmel, sigilla «la proprietà privata spirituale». Esso interviene là dove l’esposizione allo sguardo altrui – uno sguardo senza la lievità del tatto – si manifesta come esposizione al rischio di una qualche trasgressione, di un oltrepassamento che altererebbero quella proprietà. «Ogni violazione di quella sfera viene avvertita come una rottura tra la norma della personalità e la sua condizione momentanea», come «contrasto tra l’Io intero e l’Io deprivato». L’antitesi del pudore è in questo caso lo spaesamento, il trovarsi spersi senza una casa, il sentirsi fuori posto davanti a se stessi.

La caduta del pudore coincide con la negazione della nostra individualità; anziché renderci più autentici, quella perdita ci schiaccia contro il muro del disconoscimento e dell’impossessamento, ci azzera e rende «comuni», indifferenti e indifferenziati, estraniati e anonimi. L’assenza di discrezione, nell’ansia di svelare, dissolve l’intimità con noi stessi; tanto peggio se, in un tempo di «pubblicizzazione del privato» e di «omologazione dell’intimo», secondo la definizione di Umberto Galimberti, l’indiscrezione si unisce alla spudoratezza nell’asservirci alla logica conformistica del puro apparire. Meno ancora l’impudenza può essere venduta come la forma più radicale e autentica della sincerità. Né va dimenticato un peculiare pervertimento, fortemente patogeno, del pudore: il mutismo davanti al dolore.

Proprio questo pervertimento ci fa cogliere come il pudore non costituisca una barriera invalicabile oltre la quale non è possibile alcuna forma di comunicazione. Sul piano relazionale il pudore è un linguaggio dell’attesa che accompagna la riduzione della distanza emotiva, è un modo per fare spazio all’altro; e tuttavia quel linguaggio segnala come, persino nella relazione amorosa, vi sia sempre un margine di indipendenza, di proprietà di se stessi a se stessi, che nessuna pretesa di fusione o di simbiosi potrà sopprimere. Persino l’amore, al di là delle sue molteplici mitizzazioni, presuppone la solitudine e un qualche grado di alterità, di separazione e di assenza, non il loro annullamento. Non tutto può essere reso trasparente: qualcosa sempre resta in ombra, segreto o insegretito, non «riducibile all’essere della presenza e dell’assenza e ai segni che ne nominano di volta in volta il passaggio». «La forza del pudore si assesta su questa linea del fronte indecidibile. Da colpa immemoriale dell’io che schiaccia il singolo nella dimensione della mancanza, il pudore diviene risorsa progressiva, spazio di libertà, un fondo di resistenza alle identità, al controllo e ai ruoli che il potere, la cultura e la società impongono all’individuo» [Tagliapietra].

Scrive Selz: «In conclusione si direbbe che il pudore non appartenga all’ordine del dovere. È o non è. Non si rifà a una legge, ma costituisce una manifestazione etica personale. Prima di essere un dovere morale, il pudore è una necessità vitale. Assicura la vita, non per ragioni di ordine morale o di convenienza, ma nella misura in cui fa appello alla responsabilità di ognuno. In tal senso, rende possibile il funzionamento sociale e lo fonda. Rivestendo questo ruolo nella costituzione della soggettività dell’alterità, è pertanto specificamente umano».

2-fine. La prima puntata è stata pubblicata il 25.09.15

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