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Cultura

IL VIVERE GIUSTO

LUISA NEGRI - 23/12/2015

 

La scultura di cui va più fiero Franco Puttin, artista nato a Caronno Varesino nel ’66, è il bel San Girolamo, da lui esposto nel 2007 al Vittoriano di Roma. Girolamo, nella possanza di ispirazione e rappresentazione della grande opera, poggia il piede sulla testa del leone, grato al santo per avergli guarito la zampa dolente dalla puntura di una spina.

Il santo eremita, nato in Illyria nel 347 e morto a Roma nel 420 d.c., noto per l’austerità di costumi e per la sua indiscussa conoscenza delle scritture, ha ispirato Puttin fin dal momento in cui la vita di quest’ultimo ebbe uno scarto. Fu in seguito a un terribile incidente di moto. Era il 1998.

Da quel lungo periodo di riflessione e immobilità, in attesa della guarigione, sgorga l’ innamoramento per l’arte, una “fiammata” che lo decide a cambiare. Dato l’addio al lavoro sicuro, di saldatore a fianco del padre, Puttin sposa l’arte. Sceglie la solitudine e la meditazione, e una vita confortata, ma anche bruciata, dalla passione per la scultura. L’avere tra le mani un pezzo di argilla gli cambia ogni prospettiva di normalità. Non importa se la scelta lo espone al giudizio negativo di chi non capisce.

Al centro della pluralità di temi affrontati dall’artista autodidatta, in anni e anni di lavoro che rimandano a cicli ben precisi del suo percorso artistico, al primo posto, non solo in ordine cronologico, c’è il tema religioso, coltivato proprio nel tempo della sofferenza. E nel cuore della terra, asciutta e artisticamente fertile, del Mugello.

Puttin ha prodotto qui, dove ancora mantiene la residenza- e dove pensa un giorno di ritornare- molte opere: a volte su esplicita richiesta di religiosi, ispirate alle agiografie da lui predilette. Ogni materiale gli è congeniale, difficile dire se lavori meglio il legno, la creta, o il marmo. Perché qualunque materiale ne svela la genialità intuitiva, la felicità di realizzazione, la facilità con cui la mano e il gesto sanno assecondare la materia per aprirla all’evento.

Ma anche l’esempio del grande “maestro “Bernini lo ha sedotto e guidato: ispirandosi a lui lo scultore realizza ritratti in creta di santi, soprattutto di mistici come Santa Rita e San Francesco- ma anche del contemporaneo San Pio.

Di Francesco, l’artista Puttin condivide l’esempio di vita frugale, la semplicità, l’amore per il Creato e le sue creature. E ne ha fissato il rapimento estatico nella corporeità essenziale avvolta dal saio.

Nel ciclo religioso sono compresi anche impareggiabili ritratti lignei di Cristo: la sofferenza della passione contrae i lineamenti, vela lo sguardo e sublima la maschera alterata del volto.

É allora quasi passaggio obbligato il ciclo da lui dedicato ai presepi, che la tradizione attribuisce al santo patrono d’Italia. Li ha realizzati in grandi dimensioni, ma anche minime, per presepi domestici richiesti dagli amici e barattati per potersi mantenere. Preferita in questo caso è ancora l’argilla, nella sua essenzialità di materiale povero.

La stessa creta, con cui plasma Maria e Giuseppe, e il Bambino avvolto nelle fasce, la usa anche per tutte le sue altre creature: come i soggetti animalier, splendide fiere, o tori, che rivelano assoluta fedeltà descrittiva, nella precisione dei contorni, nella minuzia del manto, nello slancio agile della corsa e della lotta.

C’è infine il racconto delle figure umane: busti femminili acefali, torsi di donne o coppie di innamorati. E ancora figure maschili dalla perfetta muscolatura striata da filamenti di tessuto corporeo: è il ciclo più recente delle “Metamorfosi”, corpi che si fanno alberi, creature della vita e del vento, destinati a sublimarsi nel vorticoso evolvere del tempo che bussa.

Non avendo abbastanza spazio per custodire le sue opere, quelle di grandi dimensioni, Puttin le sotterra: lo ha fatto dalla Valle Anzasca alla Toscana, dall’Emilia alle Marche, i luoghi in cui ha lavorato, esposto e stretto fondamentali amicizie, pur vivendo appartato, spesso a contatto perenne e diretto col bosco, in cui corre a rifugiarsi quando la normalità del vivere -degli uomini- gli toglie l’ossigeno. Giornalisti della carta stampata, critici convinti della sua arte, se ne sono più volte incuriositi e interessati. Ma lui aspetta ancora e da sempre, paziente, il Segno che verrà.

Arriva persino a pensare di indire, su e giù per l’Italia, una caccia al tesoro tra i boschi che le riporti alla luce una ad una, e dimostri in concreto quanto lavoro è stato fatto dalle sue mani e dalla sua testa, in notti e giorni trascorsi a modellare e scolpire, a scrivere e disegnare, a studiare l’anatomia su volumoni acquistati vendendosi l’unica macchina.

C’è un filo nobilissimo che lega tra loro tutte le opere realizzate dall’eclettico artista-quasi un migliaio in soli dieci anni: il nesso è proprio nell’ unico disegno narrativo che racconta il creato e l’ Amore universale, lo stesso predicato dal poverello di Assisi. E che parte dai volti estatici dei personaggi del suo mondo artistico. Siano uomini o santi, personaggi mitologici o animali, insieme compongono quel creato benedetto da Francesco e quel presepe quotidiano, bello e difficile, in cui tutti abbiamo un ruolo.

Simbolo di un vivere giusto, di un rigenerante Natale di vita.

 

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